Tornano i
Kingdom Come e come accade regolarmente da quell’antico esordio eponimo del 1988, il loro lavoro è destinato a far discutere. Una certezza (e anche una “speranza”, mi sa, in un panorama musicale sempre più superficiale e distratto …) che viene persino consegnata al
flier promozionale del nuovo “Outlier” e che sottolinea ancora una volta la personalità carismatica e complessa di Lenny Wolf, ormai da qualche anno impegnato a impersonare il sovrano pressoché assoluto del suo nobile Regno.
Alimentato da liriche cupe, a sfondo “sociale”, il disco rappresenta un altro tassello nel percorso di “sperimentazione” iniziato parecchi anni fa con una sorta di “reincarnazione” Zeppelin-
esca e oggi pervenuto ad un linguaggio sonoro che non dimentica le “radici”, le impregna in un senso di drammatica intensità e le contamina di sfumature più “moderne”, arrivando ad attingere anche dal calderone dell’
alternative.
Nulla di particolarmente sorprendente, in realtà, almeno per chi ha fedelmente seguito le (altalenanti) prove più recenti del nostro, eppure oggi quella voce sicuramente derivata dall’aristocrazia Plant-
iana, e tuttavia ormai divenuta inconfondibile, manifesta una ritrovata convinzione nelle sue vibranti modulazioni evocative, così come le composizioni appaiono alquanto equilibrate e sagaci, spesso gratificate da una solenne carica emotiva ancora in grado di fare la differenza.
E’ il caso dell’
opener e singolo del
Cd: era da un po’ che i Kingdom Come non sfornavano un pezzo come “God does not sing our song”, così gravido di un’immaginifica atmosfera regale e melodrammatica da conquistare al primo ascolto.
Con “Running high distortion” lo schema viene riproposto in una configurazione maggiormente pragmatica, cagionando esiti solo leggermente meno convincenti, mentre in “Rough ride ralleye” è la contaminazione elettronica a prendere il sopravvento, ricordando in lontananza l’approccio dei The Music, per un risultato ancora una volta assai accattivante, sebbene leggermente straniante.
“Let the silence talk” è un
affaire di
hard-rock ben realizzato e un po’ prevedibile, “Holy curtain” piace per il contrasto tra gravezza e
onirismo e “The trap is alive” spezza l’incantesimo attraverso una briosa melodia che racchiude in sé tenui tracce di Van Halen e Rush.
“Skip the cover and feel” rivendica il ruolo di originario
Led Clone (una discendenza sempre molto nutrita …), esibendo classe e vocazione, l’andatura magnetica e maestosa di “Don`t want you to wait” la rende uno dei momenti più appassionanti del programma e lo stesso si può dire, dopo la bella energia e le traenti pulsazioni ritmiche concesse a “Such a shame”, di “When colors break the grey”, un brano di notevole suggestione, riflessivo e trascendentale, che con le sue sonorità avvolgenti e fluttuanti sa penetrare facilmente le profondità della corteccia sensoriale.
Lenny Wolf non smetterà mai di essere un “personaggio” (che non lesina dichiarazioni “ad effetto” …), ma è la sua
personalità artistica ad uscire rinvigorita da “Outlier”, un
album che non guarda troppo “indietro” (e, visti i tempi, sarebbe stato facile e forse pure “produttivo” …) e consolida la validità di un tracciato espressivo in grado di riservare ancora molte benefiche emozioni.