Da qualche anno la Nuclear Blast ha allargato i propri orizzonti musicali, uscendo dai confini del metal più ortodosso e puntando su nomi di tipo diverso come Candlemass, Witchcraft, Mustash o Graveyard, per citarne alcuni. A questi si aggiungono ora gli
Scorpions Child, quintetto di Austin, Texas, una sorta di versione moderna dei Led Zeppelin dell’epoca d’oro.
Fin dalla prima canzone, “Kings highway”, la somiglianza è davvero sconcertante, grazie soprattutto all’ugola di Aryn Black capace di ricalcare alla perfezione l’abilità Plant-iana nel passare con scioltezza da toni complici e sognanti agli acuti da vero rocker “vintage”. Lo stesso si può dire dell’aspetto strumentale, visto che canzoni irruente come “Paradigm” o il singolo “Polygon of eyes” sembrano direttamente derivate da titoli storici come “Black dog” o “Rock’n’roll”. In un disco del genere non potevano certo mancare le ballate elettroacustiche, così “Salvation slave” ed ancora di più “Red blood” rinnovano la tradizione dei celeberrimi brani che hanno portato il Dirigibile nell’olimpo del rock mondiale, anche se le citazioni in certi passaggi risultano davvero pesanti.
Casomai si può cogliere un eco di vecchi Aerosmith, vedi la blueseggiante “Liquor”, ma non è che sia una grande novità se pensiamo che queste due gigantesche formazioni basavano la loro musica su fondamenti abbastanza simili.
Così anche gli Scorpions Child si accodano alle molte bands esteticamente indiscutibili e riceveranno elogi per le loro belle canzoni. Però qui non si tratta nemmeno più di ravvivare un tipo di hard rock settantiano, bensì di imitare lo stile specifico di un gruppo che ha segnato un’epoca. Come studiare a memoria lo stile di Leonardo e dipingere un’altra Gioconda ma coi capelli biondi. Alla resa dei conti, mi pare un po’ poco.
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