Di fronte ad una miriade di debuttanti con bagagli d’esperienza minimi, conseguenza abbastanza tipica dei nostri tempi “tecnologici”, sorprende un po’ apprendere che “Going nowhere”, primo parto discografico degli
Other View, è il condensato di dieci anni della loro
valorosa esistenza artistica, spesa dedicandosi ad una forma discretamente variegata di
heavy metal “classico”.
Un lungo rodaggio che non è andato per nulla “sprecato”, comunque, dacché verosimilmente propedeutico ad un esordio piuttosto convincente, in cui la “storia” del genere, tra vicende di derivazione
NWOBHM, epopee
epic-power (equamente suddivise tra Europa e USA) e piccole digressioni
prog, viene sciorinata con temperamento e forza espressiva attraverso dosi significative di tecnica strumentale, vocazione e acume compositivo.
Capitanata dalla solida laringe di Lon Hawk, capace d’interpretazioni vincenti e dotata di un timbro ricco di fiero
pathos comunicativo, la formazione meneghina rompe immediatamente gli indugi con la potenza evocativa di “Exile”, dimostrando la sua innata propensione all’incisiva costruzione armonica, gratificata in parti uguali da vigore e melodia.
“Doppelganger” conferma l’impressione iniziale, consentendo di porre l’accento sull’ottimo lavoro di Stefano Candi e Francesco Tuscano, fabbricanti instancabili di
riffs e di
solos tanto essenziali quanto efficaci, mentre tocca a “Rebirth” mostrare il lato maggiormente estroso della
band, qui artefice di un
prog-metal vagamente fuori contesto eppure ben congeniato, in equilibrio tra imprevedibilità e fruibilità.
Lo
slow “Balder’s dreams” mostra un’ulteriore sfaccettatura degli Other View, assai ispirati anche quando si tratta di enfatizzare gli aspetti più introspettivi e melodrammatici della loro personalità e ciononostante il ritorno alle sonorità maggiormente muscolari ed enfatiche di “In a tower of lies” (mi ha ricordato l’approccio alla materia della Bud Tribe …) sembra indicare il terreno più fertile dove far prosperare le migliori peculiarità di uno schieramento abilissimo nel trattare con gusto la bellicosa “tradizione” metallica ottantiana.
Altre buone notizie arrivano dall’arcigna e appassionata “Lost in heaven and hell”, dalle cadenze suggestive di “Every friday”, dallo
speed “Reason of life” e dalle caliginose atmosfere di “Spawn”, a completamento di un programma che mantiene elevati livelli di coinvolgimento e appagamento per tutta la sua durata.
Con un doveroso plauso ad una funzionale sezione ritmica e alle sagaci tastiere di Matteo “Vidar” Cidda, alquanto fascinose nel loro pressoché costante apporto magniloquente ed immaginifico, non rimane che raccomandare il prodotto ai tanti estimatori del genere, in cerca d’interpreti “puri” e tuttavia non ottusi, talmente avveduti e appassionati da saper “aspettare” il momento “giusto” per tentare di fornire un contributo importante alla “causa”.
Senza dubbio, un gran bel punto di partenza …
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