Dietro al nome The Black c’è un trio capitanato da Mario Di Donato, uno di quei nostri magnifici musicisti che svolgono da decenni la loro attività nella penisola agendo in controtendenza, cioè senza mai cercare la ribalta pubblicitaria o le remunerative avventure trendiste. Di Donato è artista poliedrico, ottimo chitarrista rock ma anche pittore di buona fama nonché uomo di cultura attratto in particolare da tematiche religiose e misteriche, da parecchi anni propone una sua linea heavy che miscela varie componenti, tra le quali dominano le tinte oscure del dark-rock settantiano e della corrente Italiana del doom metal.
Tutto ciò trova conferma in quest’opera che è la risultanza di due albums distinti, composti in periodi differenti ma legati da un filo comune stilistico e concettuale, che la Black Widow ha tenuto separati nella versione vinilica ed ha invece accorpato in quella compact-disc.
“Peccatis nostris” è la parte più recente e si riferisce, come appare evidente dai titoli delle canzoni, all’interpretazione del gruppo dei “Sette vizi capitali” che oggi buona parte dell’umanità pare aver totalmente dimenticato. Qui il sound è assai potente, a tratti lento, maestoso e quasi sacrale, in altri momenti roccioso, veloce e violento, sempre guidato dai tenebrosi riffs del leader che sfoggia anche un solismo fluente di forte impatto. Spicca immediatamente la scelta anticonformista del cantato in latino, caso sicuramente raro in un mondo dominato dall’idioma anglosassone ma che non rappresenta la volontà di stravaganza ad ogni costo, bensì un saldo legame con la propria tradizione ed il rispettoso orgoglio verso antiche origini troppo spesso dimenticate.
Sin dall’iniziale “Pigritia” emerge la chiara influenza dei primi Black Sabbath, dei quali viene esaltata l’essenza più profonda e massiccia all’interno di estese cavalcate impetuose sulle quali si innestano gli esuberanti assoli Hendrixiani di Di Donato. La vastissima “Superbia” è esemplare in questo senso, mentre in altri frangenti pare addirittura di risentire il grezzissimo tiro dei vecchi Venom, vedi la terribile ed intimidatoria “Ira” soffocante come una bara di cemento.
“Capistrani pugnator” risale invece al periodo ’99-’01 ed è ispirato dalla visione di un’antica statua, appunto il Guerriero di Capistrano, conservata al museo di Chieti. In effetti la musica richiama scenari bellicosi ed epici, ancora orientata sui suoni oscuri dell’heavy doom ma con uno spirito più terreno e meno spiritual-religioso. “Praetutii” vive di un’atmosfera marziale, battagliera, evoca paurose mischie di combattenti e cozzi di armature, sangue e dolore per un brano di forte coinvolgimento, mentre “Date illi honorem” indovina una melodia immediata ma austera grazie anche al contributo dell’eccellente Eugenio Mucci, vocalist degli Akron, il quale sfodera le sue intonazioni ieratiche per dare maggior solennità all’episodio.
E’ un passaggio gravido di tensione che lancia il maestoso finale della title-track, doom-suite da brividi ed ideale accompagnamento per l’esaltazione di un eroe immolatosi in battaglia battendosi con onore e coraggio, sicuramente uno dei vertici del disco con aspetti quasi progressivi sempre all’interno di una struttura ricca di cambi di ritmo, rallentamenti e violenti strappi improvvisi.
Volendo trovare un limite nel lavoro dei The Black si può segnalare che non sempre le fasi vocali riescono ad incidere come dovrebbero, ad accompagnare con la medesima intensità lo sviluppo musicale, forse per l’inevitabile sensazione di essere più recitate in modo sacerdotale che cantate in maniera rock. Ma è davvero l’unico punto discutibile di un album ottimo sia a livello sonoro che concettuale, nuovo fulgido esempio di una scuola nostrana doom metal che non finisce mai di stupirci.
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