Se all’interno della recensione dei Battery avevo tirato le orecchie alla Punishment 18 Records, ora devo tributarle il giusto riconoscimento per aver scovato questo gioiellino di thrash metal. Pubblicato in autonomia dagli
Harlott stessi, il loro debut album è stato recuperato dalla label piemontese che l’ha ristampato per dargli una giusta vetrina. E per fortuna, aggiungerei io, visto che in questo periodo in cui è fin troppo facile incappare in specchietti per le allodole che di concreto non hanno nulla, trovarsi per le mani un disco thrash con la T maiuscola fa sempre piacere.
Dopo due EP pubblicati nel 2011 e nel 2012, la band australiana arriva al tanto agognato debutto, e lo fa veramente con il botto, andando a rimpinguare, tra l’altro, la scena del nuovo continente, che non smette di tirar fuori dal cilindro ottimi dischi (l’
ultimo dei quali recensito proprio su queste pagine poco tempo fa a nome
Nocturnal Graves), e a mantenere alta una tradizione che dagli anni ’80 ha partorito band di un certo spessore.
Nel caso degli Harlott ci troviamo davanti ad un thrash ad altissimo tasso adrenalinico, veloce, compatto, feroce, proprio come piace a noi, capace di prendere il meglio da entrambe le scene di riferimento. Varietà nei riff, ottimi assoli, repentini cambi di tempo sono arrivati dall’influenza americana (sicuramente predominante), mentre il lato più diretto e selvaggio è figlio illegittimo di Sodom, Tankard e Kreator, e la cosa bella è che con grande maestria i nostri rimodellano i due stili a proprio piacimento e a seconda delle necessità del momento, e vi assicuro che la cosa è meno semplice di quanto possa apparire. Questo porta ad una varietà di espressione che assume connotati abbastanza personali, grazie ad una riuscita miscela di thrash metal canonico, thrashcore più violento, e classic metal, specie negli assoli, ma anche grazie alla prova vocale di Andrew Hudson, che grazie a soluzioni armoniche varie e convincenti merita senz’altro un elogio in più rispetto ai suoi pur validi compagni di merenda.
Ascoltate la opener “Origin”, le più complesse “Regression” e “Export life”, o la violentissima “Ballistic”, e capirete che state avendo a che fare con un quartetto che sa il fatto suo. A dare una mano ai nostri ci pensa una produzione nitida ma al tempo stesso molto potente, il che, calcolando che si tratta di un debut album, per giunta autoprodotto, è ancora più encomiabile. Insomma, tutto pare girare per il verso giusto in questo “Origin”, e forse l’unica pecca risiede nel fatto che manca una vera e propria highlight. Il disco nel complesso è compatto e omogeneo, ma non mi sarebbe dispiaciuto un brano che spiccasse sugli altri.
Ma ripeto, stiamo parlando del loro primo lavoro, quindi ci sono ampissimi margini di miglioramento, e sono certo che con il prossimo album gli australiani ci proporranno qualcosa di ancora più maturo e personale. Per ora lasciatevi coinvolgere dalla loro musica, e dategli una chance, perché la meritano tutta… Pur non avendo inventato nulla di nuovo sono stati in grado di tirar fuori dodici brani di assoluto spessore, e ai giorni nostri è già molto…
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