Incontenibile urgenza espressiva o improvvise necessità economiche a cui far fronte, sfruttando il momento abbastanza favorevole per certe sonorità?
Ascoltando “PGP2”, ritorno a poco meno di diciotto mesi dall'esordio per la “premiata ditta”
Pinnick,
Gales e
Pridgen, verrebbe da propendere per la prima ipotesi, in ossequio oltretutto agli anni sessanta e settanta, riferimento artistico dei nostri, quando le cadenze di pubblicazione di uno stesso gruppo musicale erano spesso ben più frenetiche di oggi.
Inevitabile, però, anche presupporre il tentativo di battere “il ferro finché è caldo”, soprattutto dopo la buona accoglienza riservata al debutto, e forse, a ben sentire, qualche piccolo segnale di “forzatura” si avverte nel programma, specialmente sotto il profilo di un’eccessiva forma di diluizione in talune soluzioni esecutive e, in misura minore, compositive.
Un
difettuccio già presente in “Pinnick Gales Pridgen” (ed endemico in molti “supergruppi”), in realtà, e che qui si percepisce in maniera leggermente più nitida, pur non svilendo il valore complessivo di un manufatto di
hard-rock blues davvero possente e focoso, capace di onorare la storia del genere senza scadere in un mero esercizio
revivalistico.
Del resto i titolari del progetto non hanno nulla da dimostrare in fatto di attitudine e competenza, ma ancora una volta a convincere sono in particolare la forza espressiva e l’intensità interpretativa, entrambe all’acme quando le pulsanti note di "It's not my time to die” saturano l’atmosfera che circonda le casse del fedele apparato stereofonico, in una sorta di miscellanea tra Black Sabbath, Cactus e Vanilla Fudge, trasportati di peso nel terzo millennio.
Che dire, poi, della vorticosa "Psychofunkadelic blues”, di “Watchman”, con i suoi suggestivi richiami alla
Cattiva Compagnia più famosa del
rock, dell’
hard-gospel "Have you cried?” o ancora della melodia staniante di “Like you used to do” e del
groove terremotante di "Build it back up”, un “ponte” ideale tra passato e presente del settore?
Semplicemente che sono un impasto avvincente di tecnica e passionalità, abbastanza efficiente pure nel “tiro” di "The past is the past” (belle le armonizzazioni vocali …), nella scattante “I Ain't got no money”, nella gradevole “Down to the bone” e nel magnetico strumentale “Jambiance”, relegando nelle zone basse della mia personale classifica di merito proprio “Every step of the way”, stranamente scelta come singolo e
opener dell’
album.
Un lavoro apprezzabile, dunque, e che tuttavia suggerisce la necessità, per il futuro, di una pausa di “riflessione”, allo scopo di non disperdere un talento così imponente, assoggettandolo alle leggi del mercato … magari un bel
tour dalle nostre parti sarebbe un bel modo per cominciare il “ragionamento”, offrendo, così, un’occasione di grande soddisfazione per i tanti
fans europei del genere, sicuramente ansiosi di vedere all’opera un
power-trio di questa caratura.
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