Quando si ristampano i lavori di band da lungo, se non lunghissimo, tempo finite nel maelstrom del dimenticatoio spesso il gioco non vale la candela. Quante volte l’operazione nostalgia ci ha permesso di “riscoprire” band di secondo, terzo piano i cui resti era meglio lasciare sepolti in pace? Eppure può capitare di trovare fra tanto pattume la classica perla. Quella band che pur avendo le carte in regola per competere non ce l’ha fatta per i motivi più disparati. E in casa Relapse hanno l’esperienza necessaria per capire cosa sia buono e cosa no.
Credo siano pochi - se non pochissimi - quelli che si ricordano dei thrasher Num Skull, band originaria dell’Illinois, che nel 1988 (epoca in cui il thrash metal andava alla grande) cercarono il loro posto al sole con la pubblicazione per Medusa Records di “Ritually abused”.
Eppure bastano 30 secondi di ascolto dell’opener “The end” per rendersi conto che il quintetto americano il thrash metal lo sapeva trattare con sapienza e con capacità, pur strizzando un po’ troppo l’occhio a gente come Slayer, Death Angel e Possessed.
Veloce, schizoide e macina riff questo è, in estrema sintesi, “Ritually abused”. 12 brani 12 per quasi 44 minuti di ascolto corrosivo (N.d.R. all’epoca praticamente l’ideale per esser trasportato su una musicassetta da 46 minuti e sparato a tutto volume nel walkman) in cui non esiste un attimo di tregua e in cui intensità e brutalità vanno a braccetto.
Probabilmente quello che ha impedito ai Num Skull di creare un proprio seguito su cui costruire la carriera è da ricercarsi sia nella saturazione del mercato thrash (immancabili i cloni dei cloni dei cloni), nell’improvvisazione amatoriale di molte etichette, ma anche nell’esplosione a fine anni 80 del fenomeno Death Metal che attirò a sé le attenzioni del pubblico più estremo.
Se all’epoca molti di noi non diedero alla band nemmeno una possibilità, ora è il momento di rimediare e di scatenarsi con un headbanging d’annata.
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