L’ascolto del nuovo albo (il terzo) degli
Armonight, titolo “Recover”, mi consente di fare (ancora una volta) la seguente riflessione: in “giro” ci sono davvero tantissime formazioni “underground” interessanti, tecnicamente valide e preparate pure sotto il profilo compositivo, a cui non manca davvero molto per emergere,
almeno artisticamente, in maniera significativa.
Il problema, però, è che quel “poco” è diventato
fondamentale, in un
rockrama costipato e livellato come quello attuale.
Insomma, è innegabile che i vicentini siano piuttosto abili nella produzione di un
rock gotico (definizione che non amano molto, in realtà …) ad ampio spettro (comprendente pure qualche bagliore d’ispirazione
prog) d’immediata suggestione, irrorato di sfarzose tastiere, pilotato da
riff e linee chitarristiche allettanti e da una voce femminile abbastanza espressiva, tuttavia alle loro canzoni, complessivamente piacevoli, manca un pizzico di “carattere”, qualcosa che le sappia distinguere pur rimanendo all’interno dei confini di un genere così codificato e frequentato.
Mi rendo conto che non si tratta di un obiettivo “facilissimo” da conseguire, ma impegnarsi per raggiungerlo deve comunque rappresentare l’obbligo primario di una
band come questa, già capace di scrivere e interpretare pregevoli melodie, energiche, passionali, malinconiche e evocative, sebbene un po’ troppo prevedibili e ripetitive.
Mentre attendiamo il salto di qualità “definitivo”, godiamoci “Night of illusions”, “Ethereal vision”, “Sink into the blue” (una sorta di via di mezzo tra Anathema, Evanescence e Cure!), “I never change” (la mia preferita, per la cronaca …) e “Take me away” (con un vago tocco alla Placebo nell’impasto ...), tutto materiale di buona fattura e degno di attenzione.
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