Nove anni non son pochi, e vi basterà osservare una fotografia del 2006 che vi ritragga per rendervene tristemente conto.
Quando si parla di musica, però, nove anni posson volare in un battito di ciglia: è senz’altro il caso degli
Ancient Rites.
Certo, anche loro si sono incanutiti e sfoltiti (la line up conta oggi quattro membri effettivi), ma il trademark sonoro abbracciato col precedessore
Rvbicon rivive in questi solchi pressoché immutato.
Ciò è bene?
In termini generali direi di sì:
Laguz (runa che, se non erro, rappresenta la forza vitale sprigionata dall’acqua) è certamente un album di discreta caratura. L’extreme epic metal che fonde black, power, folk e death condito con testi a sfondo storico che i belgi hanno perfezionato negli anni torna una volta ancora agguerrito, suggestivo, professionale e ricco.
Molto ricco.
Forse troppo ricco.
Nel fantastico (?) mondo del diritto si suol dire che “
nel più sta il meno”.
Tradotto: inutile arrovellarsi circa l’opportunità di elaborare l’ennesima eccezione di rito, inserire nelle conclusioni una ulteriore richiesta in subordine o domandare una copia ad uso notifica di un atto giudiziario in più.
Nel dubbio, lo si fa.
Applicato al metal, invece, l’assunto di cui sopra non sempre funziona: aggiungere elementi, orpelli, abbellimenti, strati e fronzoli al proprio sound difficilmente contribuisce a migliorarne la resa.
Così fosse, l’ultimo
Blind Guardian sarebbe uno dei più grandi dischi di tutti i tempi… e ci siamo capiti.
A mio modesto avviso,
Laguz patisce a causa di questo equivoco: la magniloquenza si tramuta talvolta in opulenza, e la ricchezza in sovrabbondanza.
Questo avviene a tutti i livelli: l’elaborata struttura dei brani, i suoni rotondi e cristallini scelti dal produttore
Christian “Moschus” Moos, gli inserti sinfonici onnipresenti e preponderanti a livello di mixing, la scelta di “spalmare” le vocals -con linee spesso doppie o triple- andando a coprire un po’ il guitar sound, minuzioso ma mai protagonista e mai davvero cattivo…
Peraltro, tanta fastosità ornamentale non riesce nell’intento di distrarre l’ascoltatore, che si accorgerà presto come le canzoni mostrino qualche inciampo e tendano ad assomigliarsi un po’ troppo l’una con l’altra.
Sia chiaro: non avrei certo desiderato un ritorno al crudo black degli esordi. Sarebbe stato incongruo e, se me lo si concede, patetico. Nondimeno, un sound sì epico e pomposo eppur con una produzione più secca, orchestrazioni meno invadenti e maggior attenzione a melodie e riff, come avveniva nello stupendo
Dim Carcosa, si sarebbe fatto forse preferire.
In barba alle recriminazioni di un recensore pedante, v’invito comunque a godere della bellezza di brani come
Frankenland -una delle meno cinematografiche del lotto-
Under the Sign,
Cartagho Delenda Est –locuzione che ai tempi delle superiori una mia compagna di classe tradusse con “la tartaruga deve andarsene”; momenti che entrano nella storia…- o
Fatum, ballata medievale che chiude l’album in modo cheto, come faceva la title track del già citato
Dim Carcosa…
Gli
Ancient Rites, dunque, sono di nuovo fra noi, e non possiamo che rallegrarcene. Vedremo se il prossimo full lenght -non fateci aspettare altri nove anni, ok?- avrà mire meno hollywoodiane…
Nel frattempo bentornati.