Da imperterrito, maniaco, collezionista di tutto ciò che è Purple (family compresa), questo disco mi ha fatto letteralmente uscire fuori di testa, e non nel senso che mi sono esaltato a dismisura ascoltandolo, ma proprio nel senso letterale del termine. È stata talmente tanta la lotta intestina tra la decisione di stroncarlo senza mezzi termini e quella di incensarlo, che alla fine non sono riuscito a venirne a capo e ho deciso di optare per un bel SV. Ovviamente ora dovrò motivarvi le mie perplessità e le mie indecisioni, sperando di riuscirci.
L’idea del progetto in sé andrebbe stroncata a prescindere, perché non è normale che l’ultima prova in studio dei
Whitesnake risalga addirittura al 2011, e che nel frattempo siano stati pubblicati soltanto live album. E il buon Dave che fa? Opta per la riproposizione di una manciata di brani dei
Deep Purple, ovviamente del periodo in cui occupava lui il posto di lead singer. Un po’ poco per i fans, direi, a maggior ragione visto che il tutto puzza troppo di operazione commerciale per giustificare un ulteriore tour mondiale. Con fatica cerco di soprassedere e mi metto all’ascolto, pur se con notevoli dubbi, immancabilmente confermati dopo le prime note di “Burn”. Il sound è troppo moderno, ma c’era da aspettarselo. D’altra parte siamo nel 2015, non nel 1974, quindi possiamo passarci sopra. Un po’ meno, invece, possiamo soprassedere sulle scarse doti vocali di Dave, che sembra proprio essere arrivato alla frutta se neanche in studio riesce a risultare convincente. E che dire del nuovo entrato Joel Hoekstra che stupra letteralmente l’assolo con i suoi virtuosismi neo classici? Ultimo appunto tecnico: per quanto bravissimo, Aldridge non è neanche un’oncia di Paice, e il risultato finale è che lui accompagna semplicemente i brani, senza lasciargli la benché minima impronta personale.
Detto ciò, andando avanti scopro anche qualcosa di piacevole, e cioè una spiccata vena blues che fuoriesce di tanto in tanto, andando ad arricchire i brani con arrangiamenti che non sfigurano affatto, anzi. Vedi per esempio l’intro di “Might just take your life” e “You fool no one”. Così come ho apprezzato parecchio le parti acustiche, e la nuova veste di “Sail away”, davvero notevole. Funzionano meno, invece, i barocchismi che di tanto in tanto la band inserisce per dare nuovo lustro alle parti strumentali, troppo moderni e avulsi dal sound porpora. E paradossalmente, dopo la giù citata “Burn”, gli episodi che mi hanno convinto di meno sono proprio “Mistreated” e “Stormbringer”, forse proprio perché in quanto capolavori sono difficilmente raggiungibili.
Coverdale non se la cava male in “You keep on moving” e “Holy man”, anche se le interpretazioni originali di Hughes sono ovviamente inarrivabili (il divario tra i due è sempre stato incolmabile), e in generale l’ho apprezzato molto di più nelle parti più delicate e rilassate (vedi “Soldier of fortune”). Nei brani più rock invece tira proprio la corda, e comunque anche la band non decolla, manca quella marcia in più che solo Blackmore e Paice avevano (e hanno tutt’ora…).
Al di là di questi aspetti, legati più che altro a gusti personali e a parametri puramente tecnici che tutto sommato lasciano il tempo che trovano, resta il dubbio sull’utilità di un’operazione del genere. Era veramente così necessaria? I fans davvero non potevano farne a meno? Non sta a me deciderlo, però io resto della mia idea, e cioè che era meglio concentrarsi sulla composizione di materiale inedito e magari una cosa simile proporla in un tour commemorativo, che avrebbe senz’altro fatto la gioia di molti. Avere a che fare con la storia è sempre rischioso, e troppo spesso si rischiano ritorsioni. A voi giudicare il risultato finale…