Difficile dire se sia più merito dell’uscita di
Tate o dell’entrata di
LaTorre, ma questa è una band che, dopo essersi persa clamorosamente per strada, ha saputo ritrovare il sentiero giusto, regalandoci nel giro di due anni due dischi di altissimo livello.
Capire se fosse
Tate a frenare gli altri o se
LaTorre abbia portato nuove idee e nuova voglia, come vi dicevo, è difficile, ma non impossibile: ascoltando i dischi mi pare più che evidente la presenza di un marchio di fabbrica definito, potente e riconosibile, segno che forse, nonostante il perdurare dell’assenza di
DeGarmo, i nostri baldi giovani non avevano proprio perso del tutto il lume della ragione.
Ma veniamo a questo “
Condition Human” (titolo affascinante e bella copertina, tra l’altro).
La doppietta iniziale è davvero buona, con due brani che pescano a piene mani dallo stile dei capolavori (echi di “
The Needle Lies” in “
Arrow Of Time” e citazioni nemmeno troppo velate in “
Guardian”), senza paura di riproporne l’attitudine in veste moderna.
Le successive “
Hellfire” e “
Toxic Remedy” sono di certo piacevoli ma fin troppo interlocutorie e, anche dopo diversi ascolti, non riescono a far centro come dovrebbero, mentre “
Selfish Lives” rappresenta forse la perla di questo disco: carica di melodia ma anche di atmosfere oscure, corre sul limite della sperimentazione, senza snaturare il contesto ma anche senza paura di osare.
“
Eye9” inizia col basso…e quando i nostri ragazzuoli partono col basso solitamente ci regalano qualcosa di buono. Pur non rientrando nella hall of fame dei capolavori, anche questo brano riesce a stupire, affiancando linee vocali decisamente non banali ad arrangiamenti strumentali di grande impatto.
Splendida la power ballad “
Bulletproof”, il cui ritornello finisce dritto tra le cose da ricordare di questo 2015, mentre con “
Hourglass” e “
Just Us” si torna nel novero della normalità, prima di ripartire alla grande con il pezzo più canonicamente metal del disco, ossia “
All There Was”.
Dopo la semi-intro “
The Aftermath” ecco la conclusiva title-track: lunga e tortuosa, alterna momenti riflessivi a sfuriate elettriche, manenendosi sempre in territori decisamente bui e tetri.
Un album da assaporare più volte, senza lasciarsi ingannare dalle prime impressioni. Carico di colori, più lungo e meno diretto del precedente, anche se passa via davvero in un soffio, senza mai annoiare. Mezzo punto in meno del predecessore perchè nel 2013 l’effetto godimento per averli ritrovati doveva essere premiato. Il livello è identico, è alto, è definitivamente
Queensrÿche.
Compratelo, infedeli.