A tre anni di distanza dall'acclamato
"Orvam: A Song For Home", tornano i greci
Need, con un album strutturalmente identico (sette tracce, di cui la sesta è un dialogo tra due persone) che dovrebbe essere il terzo capitolo di una trilogia dal concept sempre poco chiaro e non ben precisato
(inutile dire che questo full-length dovrebbe parlare di libertà, ndr).
"Hegaiamas: A Song For Freedom" è uno di quei dischi progressive metal in grado di mettermi in seria difficoltà (come a suo tempo fece
":KTONIK:" dei Votum), ponendomi davanti al fastidioso quesito: "sono io che non capisco un tubo, o davvero tanto
ermetismo musicale a volte non paga quanto dovrebbe?".
I
Need sanno suonare e sanno scrivere buone canzoni, su questo non ci piove, ma non li trovo sempre efficaci: tra richiami più o meno velati a band del calibro di Evergrey (con cui sono attualmente in tour), Dream Theater e Fates Warning, i nostri hanno il vizio di far durare i brani sempre più del necessario e di non "spingere" a sufficienza su quelli che sarebbero indubbiamente i loro punti di forza (ad esempio un certo gusto per gli arrangiamenti più soffusi, azzeccati inserti di voce femminile, momenti di coinvolgente teatralità).
L'heavy-prog canonico di
"Rememory" prelude alla più elaborata
"Alltribe", impreziosita da ottimi assoli di chitarra e tastiere.
"Therianthrope" è sinistra, pesante, dark, con buone sfumature elettroniche di matrice alternative.
"Riberthane" ricorda il sound di
"Systematic Chaos", e potrebbe essere un brano da head-banging se la strofa non fosse tanto "storta" dal punto di vista ritmico; buono il ritornello, prolissa la coda. Luci e ombre anche per
"Tilikum", sulla scia del primo brano (torna anche la voce femminile), con un cantato più teatrale e un gustoso break dal sapore orientale. Il "colpo di scena" è la successiva
"I.O.T.A.", un dialogo lui/lei evocativo e riuscito, sonorizzato dalle tastiere di
Anthony. La lunga titletrack dovrebbe essere la ciliegina sulla torta ma suona un po' pasticciata: l'intro di pinkfloydiana memoria (ricordate
"Sorrow"?), sonorità esotiche, ancora Dream Theater, riff un po' abusati, frammenti di scuola neo-progressiva, una coda epica che strizza l'occhio a
Ray Alder senza raggiungerne le vette artistiche, altre parti recitate. Mah.
Complessivamente la prova direi che è discreta: rimane quel senso di "occasione mancata" ma, come confessato in apertura, magari "sono io che non capisco un tubo"...