Sono veramente felice di avere l’occasione di disquisire brevemente dei
Rod Sacred, uno degli emblemi più significativi dell’imperitura competitività internazionale del “metallo italiano” e di come certe “passioni” siano difficili da soffocare nonostante le molte difficoltà e le ingiustizie.
Sardi della provincia di Cagliari (non esattamente il centro del
Regno del Rock n’ Roll …), fondati nel 1982, dopo l’intensa attività in “cantina”, realizzano un paio di buoni
demos, e grazie a un notevole potenziale e a un’enorme abnegazione (superando anche lo
shock della scomparsa prematura del chitarrista
Paolo Bonilli), raggiungono l’agognata meta discografica nel 1990, con un albo autointitolato pubblicato dalla
Metal Master - Metal News.
Poi, analogamente a tanti colleghi, dopo un breve lampo di “notorietà”, la
band sparisce dai
radar ma non si arrende, fino alla
reunion (che conduce alla pubblicazione, nel 1997, di “
Sucker of souls”) e alla firma di un contratto con la prestigiosa
Pure Steel Records, da considerare, nel suo “piccolo”, una sacrosanta “ricompensa” dopo anni d’immeritato oblio.
Il primo parto della fruttuosa collaborazione è questo “
Submission” il quale recupera il programma dell’esordio e lo combina a sette nuove composizioni, in una sorta d’ipotetico (e “insidioso” …) confronto tra il passato e il presente della formazione isolana.
E partiamo proprio dagli inediti, che aprono la scaletta e ci riconsegnano un gruppo potente e ispirato, coagulato attorno alle figure storiche di
Franco Onnis e
Tonio Deriu, capace di conquistare i sensi di tutti gli appassionati di
hard n’ heavy “classico”, che riconosceranno in Scorpions, Riot e Saxon i plausibili modelli principali dei nostri.
Acquisita una “naturale maturità”, l’
ensamble cagliaritano si dimostra assai abile nel costruire brani sempre intensi, dinamici e ben congegnati, dalle strutture dirette e non per questo “semplicistiche”, disinvoltamente ripartite tra affilate lamine
metalliche (le cadenze pulsanti di “
Submission”, il crescendo emotivo della melodrammatica “
Stop fear”, le arrembanti “
Hiper drive” e “
Radio”) e compatti blocchi
hard-rock ("
Let yourself go” e la suggestiva “
Strange life” che enfatizzano le sfumature
Atsbury-iane della laringe dell’ottimo
Deriu).
Dopo aver certificato la credibilità di un gruppo attrezzato per affrontare le convulsioni musicali del terzo millennio, non rimane che immergersi nella sua “storia”, scoprendo (o “riscoprendo”, nel caso di un’anagrafe un po’ più “datata”…) che le qualità dei
Rod Sacred arrivano da lontano e che, seppur caratterizzato da un pizzico di fatale ingenuità, il loro primo disco (soprattutto con pezzi come “
Don't fear the rain”, “
The mistery of quid”, “
Crazy for you” e “
Will of living” ...) aveva tutti i crismi per promuovere una carriera artistica gratificante e ricca di opportunità.
Un ritorno da accogliere con grande soddisfazione e senza la benevolenza nostalgica riservata ai “sopravvissuti” … il talento e la palpitante vitalità espressiva di una “vecchia guardia” che non delude e non è ancora per nulla pronta ad abdicare.