Era da mesi che pregustavo la stroncatura del nuovo album di Sua Maestà
Steven Wilson, ma anche questa volta, mannaggia, non è quella buona…
Scherzi a parte c’è da riconoscere che l’artista inglese è arrivato a un punto della sua carriera tale da potersi permettere di fare quello che gli pare, arma - per forza di cose - “a doppio taglio” che gli può, di volta in volta, far perdere o guadagnare miriadi di fan in giro per il mondo.
Il preannunciato “cambio di registro” c’è stato, ma non così drammatico come aveva (volutamente?) lasciato intendere
Wilson.
“Hand. Cannot. Erase.” aveva aperto una serie di porte;
Wilson con
“To The Bone” non ha fatto altro che varcarne con decisione una.
Ascolto il nuovo full-length dell’ex-Porcupine Tree e immagino come possano essersi sentiti i fan dei Pink Floyd all’uscita di
“A Momentary Lapse Of Reason” o
“The Division Bell”, album - rivalutati in seguito - che hanno avuto il coraggio di dimostrare che anche il pop e il rock potevano essere forme d’arte nobili senza dover per forza ricorrere a quegli orpelli che pochi anni prima avevano reso il prog un tabù alla stregua del nome di
Voldemort a Hogwarts
(scusate la citazione potteriana, ma la cosa si stava facendo troppo seria, ndr).
Per raggiungere questo ambizioso obiettivo,
Steven Wilson ha nuovamente rimescolato le carte in tavola “sbarazzandosi” della line-up degli ultimi acclamatissimi album (in particolare dell’accoppiata
Govan/Minnemann), circondandosi di ospiti - più o meno familiari - secondo quella che è un’ottica più propriamente da “album da classifica” e condividendo, a sorpresa, gli oneri e gli onori della produzione con l’insospettabile
Paul Stacey (Oasis, The Black Crowes).
“To The Bone” non è un concept, ma contiene alcuni dei testi più profondi mai concepiti dall’artista (che pure in questo si è fatto dare una mano da qualcuno, il cantante degli XTC
Andy Partridge); testi cupi, pessimisti, ma lucidi come pochi - in tal senso
“People Who Eat Darkness” e
“Detonation”, sui temi del fondamentalismo religioso e del terrorismo, sono da brividi.
Sul fronte musicale dimenticate pure le recenti divagazioni jazz/avantgarde di
“Grace For Drowning” o
“The Raven…” e tornate con la mente sia a
“Insurgentes” sia ai Porcupine Tree di
“Deadwing” e (in parte) di
“Fear Of A Blank Planet” -
Wilson ha scomodato Tears For Fears e Talk Talk, ma detta così probabilmente per i nostri lettori è più facile.
L’introduttiva titletrack è un ottimo biglietto da visita: il groove di
Jeremy Stacey ben si sposa con le atmosfere Eighties dell’arrangiamento.
“Nowhere Now” ha qualcosa di
“Lazarus”, prima della già anticipata
“Pariah”, che con le sue influenze synth-pop acquista un senso sicuramente diverso nel contesto del full-length.
“The Same Asylum As Before” brilla per le ottime melodie, e prelude a
“Refuge”, una delle perle dell’album (immaginate un frullato di
Peter Gabriel e Pink Floyd proiettato nel nuovo millennio e impreziosito dal solo di armonica di
Mark Feltham). Anche di
“Permanating” si è già ampiamente discusso - c’è chi l’ha paragonata, non del tutto a torto, a
“Mamma Mia” degli Abba - ma a mio avviso non basta un ritornello con il pianoforte in ottavi per parlare di plagio (io ci ho sentito molto di più i Beatles che il quartetto svedese). Però,
Steven, lasciatelo dire: il finale in
fade è terribile.
“Blank Tapes” ci riporta in terre progressive grazie al Mellotron e al chitarrismo di scuola
Steve Hackett, in totale antitesi con la successiva
“People Who Eat Darkness”, brano tirato dai connotati pseudo-punk (con qualche punto di contatto con
“Deadwing”).
“Song Of I” mette a sistema i Genesis di
Phil Collins, il sopraccitato
Peter Gabriel e orchestrazioni sinistre, prima della lunga
“Detonation”, traccia di per sé semplice ma dall’arrangiamento elaboratissimo, dove spicca il bel solo di
David Kollar. La chiusura è affidata a
“Song Of Unborn”, un altro brano tanto orecchiabile quanto complesso che vede la partecipazione del rinomato gruppo vocale Synergy Vocals.
Non abbiate paura. Questo è
Steven Wilson al 100%.