Copertina 9

Info

Anno di uscita:2004
Durata:28 min.
Etichetta:Code666
Distribuzione:Audioglobe

Tracklist

  1. DOPECITY
  2. WHO DARES TO KILL THE LION?
  3. THE HILLS HAVE EYES
  4. THE GOSPEL ACCORDING AN EXIT SOLUTION
  5. AN AFFECTER OF CHANGE
  6. PRIMATES
  7. BABILONIA CAFÈ

Line up

  • Kundhali: vocals, grooves, sampling
  • Evanghelya: bass, synths, sitar
  • H:Kashchej: guitars, noises
  • Drakon: rhythms, grooves, percussions
  • Bad Sector: soundsystem

Voto medio utenti

Questa recensione sarà molto lunga, quindi prendetevela comoda.
I Thee Maldoror Kollective (già semplicemente Maldoror) prendono il nome dall’opera “Les Chants De Maldoror” del conte di Lautréamont alias Isidore Ducasse, opera poetica tra le più blasfeme della seconda metà dell’ottocento. Il protagonista di questi canti è proprio Maldoror il quale, infelice dell’umana esistenza e nemico giurato di Dio (Quale Dio? Il concetto e l’essenza stessa del Theos.) che descrive come un essere antropofago, dichiara guerra all’umanità stessa e afferma di essere l’essere più crudele mai creato. Epiche sono le descrizioni immaginifiche della sua lotta, una volta trasformatosi in polipo, col Creatore o quella con l’arcangelo Granciporro, fino ad arrivare alla vittoria finale. Ciò che muove Maldoror è l’odio, l’odio gli da una sensazione di potenza immane che sovente lo trasfigura e lo conduce a vette sempre più elevate di crudeltà, in un cammino senza sosta.
Vi ho fatto questa premessa perché il percorso artistico della band piemontese è molto simile a quella dell’eroe da cui prendono il nome. Partiti con il mellifluo black metal degli esordi, i Maldoror hanno nel corso degli anni, e disco dopo disco, aumentato il loro potenziale malevolo, riuscendo, cosa impensabile per gli adoratori del black metal, a rendere la loro proposta sempre più cattiva, più maligna, pur allontanandosi dai clichè del black stesso, ovvero della malignità in musica per definizione. Il loro cammino è stato a tratti esaltante ed il germe del cambiamento era stato gettato con quel capolavoro di “New Era Viral Order” laddove se è vero che il black metal era presente più a livello concettuale che materiale, è pur vero che quel disco aveva una lucida cattiveria, una freddezza spietata, un odio algido, era qualcosa di veramente destabilizzante.
Oggi i Thee Maldoror Kollective di “A Clockwork Highway” hanno definitivamente perso le influenze black metal eppure sono dannatamente black metal, incarnando l’essenza stessa della cattiveria, la quale ha assunto una forma minacciosa come mai prima. Hanno fatto propria l’essenza stessa del “fare ciò che vuoi sarà la tua unica legge” di crowleyana memoria e hanno deciso di usare tutte le armi a loro disposizione per farci del male, non male fisico, male cerebrale, di sconvolgere e sconfessare le nostre certezze, di farci sentire desolati in una dimensione di vuoto esistenziale, di dare l’ultimo colpo alle nostre laide convinzioni. L’hanno potuto fare con quella reale Cultura, l’indefesso Individualismo, la forte Personalità di cui sono portatori.
In questa dimensione nella quale la vera Esperienza è scavare dentro se stessi per trovare le chiavi della Conoscenza, la band dilata in confini del post-metal di “New Era Viral Order” fino a che di metal non ce n’è manco l’ombra e si naufraga in un mare di vibrazioni oscure, fatte di assalti harsh noise, industrial glaciale, sofismi cibernetici che nascondono la carne e il sangue del disperato Kundhali e delle sue vetrioliche vocals, direttamente tratte da qualche incubo à la Steve Von Till, ed è facile pensare ad un figlio degenere ed apocalittico dei Tribes Of Neurot.
“A Clockwork Orange” è veleno inoculato lentamente, una flebo di dolore cerebrale, un demone che striscia sotto la pelle, che arriva al cervello ed esplode in tutto il suo fragoroso odio, con tribalismi ipnotici e terrificanti, synths alieni che implodono generando miasmi di fredda luce nera, beats silicei che pulsano ora lentamente ora più velocemente, ingrossando il cuore meccanico e cigolante di questo opus, mantra tantrico e rappresentazione iconografica dell’amplesso uomo/macchina, in cui la macchina sembra essere più umana e meno razionale dell’uomo stesso.
Questo disco esula da qualsiasi canone di valutazione oggettiva e mostra la sua reale dimensione solo in una visione oggettiva ed oggettivizzante dello stesso. Forse non siamo ancora pronti per questo disco, personalmente questi sono i dischi che amo di più, quei dischi da subire, non necessariamente da comprendere, quei dischi capaci di appiattire il tuo encefalogramma e portarti in altre dimensioni, verso altre conoscenze, magari verso il nulla, sicuramente lontano dalla realtà. Maldoror è tornato per dare ancora una volta l’assalto al Dio antropofago.
Il giudizio qui sotto è inutile conseguenza, ma necessario orpello “pro forma”.
Recensione a cura di Luigi 'Gino' Schettino

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