Mi sembra che scorra meglio il nuovo album di
Derek Sherinian (forse per merito anche dei tanti ospiti, da
Steve Stevens a
Michael Schenker).
“Vortex” attacca con la titletrack, brano di grana grossa con tanta voglia di Eighties e un occhio di riguardo per la melodia, anche se le soluzioni tanto care al chit… ops, scusate, al tastierista sono bene o male sempre quelle.
“Fire Horse” si muove a cavallo tra funk e
“Falling Into Infinity”, con
Nuno Bettencourt in grande spolvero, e anticipa la riuscita
“Scorpion”, fusion pianistica alla maniera di Chick Corea o Hiromi. In
“Seven Seas” riemerge il passato solista dell’americano (periodo
“Black Utopia”), mentre
“Key Lime Blues” suona come Stevie Wonder sotto steroidi.
“Die Kobra” è compatta e accessibile, in contrasto con la spigolosa
“Nomad’s Land”, che non avrebbe sfigurato in un lavoro dei
Planet X. La sorpresa è la conclusiva
“Aurora Australis”, fluida nello sviluppo - nonostante la lunghezza - ed equilibrata nel tastierismo eterogeneo che va dal pianoforte ai synth più muscolari.
Bravo
Derek.
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