Gli
Wounds originariamente si formarono sotto il moniker
Wounds of Ruin nella periferia di Chicago, intorno al 2006, quando gli amici
Rick Mora e
Nate Burgard iniziarono a scrivere il materiale che alla fine si sarebbe evoluto nel sound che possiamo oggi ascoltare sotto l'attuale nome.
Gli americani, nonostante siano in giro da svariati anni, hanno all’attivo soltanto un singolo (
“An Undead Awakening” del 2018) e un EP (
“Light Eater” del 2019); e si ripresentano adesso, finalmente, con il loro primo full-length:
“Ruin”, sotto l’egida della
Everlasting Spew Records.
“Ruin” presenta un technical death metal dal taglio moderno che richiama alla memoria gli
Atheist di
“Piece of Time" e
“Unquestionable Presence” (senza le divagazioni jazz), inoltrandosi talvolta leggermente oltre, sfiorando così lidi più estremi come quelli del grind e del brutal, che si avvicinano a formazioni quali
Deeds of Flesh e
Dying Fetus, pur senza averne né la caratura né lo stesso impatto sonoro.
L’album è composto da nove tracce caratterizzate da un rifferama molto intricato che si avvale spesso del palm mute, con cambi di tempo piuttosto complessi e break down moderatamente corposi, contraddistinti dai classici tappeti di doppia cassa che ne fanno da padrone.
Le parti più interessanti le troviamo nelle ripartenze, caratterizzate da accelerazioni repentine di matrice hardcore, in cui il growl si muta in una sorta di scream estremamente nervoso e dal piglio catchy, che strizza l’occhio nella direzione di realtà simili agli
Exhumed. Non a caso i brani più riusciti sono a mio giudizio
“Doom Incarnate” e
“Dismember and Devour”.
Purtroppo non si può affermare lo stesso per le parti prettamente technical, le quali risultano meno efficaci – fatta eccezione per
“Ready Your Mind” –, essendo a mio avviso carenti di originalità e di capacità di finalizzazione; e questo finisce per far restare il loro potenziale rinchiuso in un riffing eccessivamente involuto e avviluppato su se stesso. Difetto che potrebbe essere mitigato dai rallentamenti in cui il gruppo cerca di puntare sul groove e su alcuni hooks strategici, ma che in mancanza di un’idea chiara e distinta della meta da raggiungere risultano inconcludenti.
Il patter è sicuramente ben eseguito e nel complesso piacevole; sostenuto da una produzione che si adatta ai nostri tempi, senza tuttavia rinnegare la ferocia che ogni cultore del genere non dovrebbe mancare di onorare.
Ahimè, i difetti di cui vi ho parlato, in particolar modo la carenza di personalità, mi lasciano perplesso e incapace di immaginare che
“Ruin” sia in grado di far breccia nel cuore degli amanti del metallo della morte.
Recensione a cura di
DiX88
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