Lo attendevo ma non ci speravo, lo ammetto, in questo nuovo album dei Manowar. Troppi anni passati dall'ultimo lavoro, troppi proclami fanfaroni e troppe release inutili; insomma, tanto fumo e poco arrosto è quello cui ci avevano abituato i quattro di New York in questi sei anni. "Louder than Hell", se ascoltato con il senno di poi, è veramente squallido. La stessa formula di sempre, certo, ma svuotata di emotività e trasformata in un proclama smargiasso che poteva accontentare solamente i fans "die-hard" della band e i giovani ragazzi che si galvanizzano con parole d'ordine quali "Death to false metal".
Così "Warriors of the World", per me, partiva con i peggiori presupposti, alimentati anche dal titolo del lavoro. I Manowar, però, sono pur sempre i Manowar, la band autrice di capolavori del genere quali "Into Glory Ride" e "Hail to England", e quindi, checché ne dica, sarei il primo che si fionderebbe a comprare l'album nuovo, anche fossero solo 35 minuti di peti e flatulenze di Joey de Maio.
Così infatti è stato, e, anticipando tutti i gloriosi collaboratori, sono riuscito ad ottenere questa preziosa cassetta per primo. Pochi attimi sono bastati a fugare ogni dubbio, giusto il tempo del primo riff di "Call to Arms", sorretto da epici cori che nulla hanno a che fare con l'album precedente. Sull'urlo di Eric Adams già sono in lacrime. I Kings of Metal sono tornati, alla grande.
Epica, passione e drammaticità sono elementi che non sentivamo uscire da un album dei Manowar da tempo e che tornano ora massicciamente, nell'opener prima e nel lento anthemico "Fight for Freedom" poi.
Da brivido la prestazione di Eric nel "Nessun Dorma", in cui mostra di aver sensibilmente migliorato la propria pronuncia italiana e di avere ancora voce da vendere. Si torna ai grandi lenti corali e intensi a livello emotivo con la successiva "Swords in the Wind", che anticipa quello che è l'episodio più inconsueto dell'album, "An American Trilogy".
Trattasi della rivisitazione degli inni di battaglia statunitensi della guerra civile che lacerò il Paese anni or sono, ossia "Dixie" (Stato del Sud) e "Battle Hymn of the Republic" (Stato del Nord), con la tradizionale preghiera per i caduti in battaglia.
Un momento altissimo, che mette in luce la vera drammaticità che accompagna da sempre la musica dei Manowar, troppo spesso passata in secondo piano rispetto al lato più guascone dei quattro newyorkesi.
In "An American Trilogy" Eric riesce a raggiungere un lirismo unico, grazie ad un'interpretazione ricca di pathos, toccante e commovente come non mai.
La lunga "The March" ci introduce con le sue tastiere a "Warriors of the World United", singolo dell'album, brano cadenzato ed anthemico in classico stile Manowar.
Il finale dell'album è invece un continuo crescendo; se finora i quattro erano stati prudenti ed avevano aspettato ad alzare i toni, con le tre songs finali si scatenano letteralmente.
"Hand of Doom" è un pezzo sostenuto, che non perde di epicità ma che punta più all'impatto. Spettacolare e geniale la strofa che viene dopo il solo di Carl Logan (meglio integrato nel sound della band rispetto a "Louder than Hell"). Un terzinato micidiale in cui entrano in successione basso, batteria e infine chitarra; fenomenale.
Segue "House of Death", violento pezzo che non brilla per originalità, ma che riporta i Manowar sui ritmi sostenuti della seconda metà di "Triumph of Steel", mentre chiude il tutto "Fight Until we Die", altro brano dall'indubbio valore.
Nel complesso dire che si tratta di un ritorno ai fasti, sarebbe una frasona di cui poi forse mi pentirei; sicuramente siamo ad un livello cento volte più alto di quello di "Louder than Hell" e forse anche di "Triumph of Steel".
Un album impedibile per i fans della band, ma anche un occasione per i loro detrattori di abbandonare i pregiudizi e lasciarsi trasportare dalla valanga di emozioni che i Manowar riescono a trasmettere con questi undici pezzi. Da non perdere.