(12 luglio 2016) Slayer + Amon Amarth @ Rock In Roma

Info

Provincia:RM
Costo:€45
Slayer + Amon Amarth + The Shrine – 12 Luglio 2016 – Rock In Roma


I concerti inaspettati sono i più soddisfacenti. Sapevo dell’ennesima discesa italica degli Slayer, ma non ci avevo messo il pensiero perché pensavo di non riuscire ad organizzarmi con il lavoro, per cui… Già, erano quasi tre anni che non riuscivo a farmi una trasferta capitolina per qualche grande evento live, quindi quando un paio di giorni prima sono riuscito ad organizzare il tutto, è salita la frenesia, alimentata anche dall’astinenza di cui sopra.

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Giungo all’Ippodromo di Capannelle verso le 19:00, in largo anticipo rispetto all’orario di inizio dello show. Una volta sbrigate le questioni burocratiche (incredibilmente in un nano secondo, senza nessun intoppo in cassa accrediti), entro nell’accogliente e spaziosa location romana e… mi sembra di stare al mio primo concerto!! Tutte facce nuove (per carità, nulla contro il ricambio generazionale, ci mancherebbe. Fortunatamente con elegante ritardo arriva anche qualche vecchiaccio e le facce note iniziano a crescere), e per lo più di persone che sembrano passate di lì per caso (ecco, qualcosa in più contro lo sdoganamento del metal ce l’avrei da dire… ma non è questo il luogo adatto). Sempre questo sdoganamento ha fatto sì che eventi che in origine venivano relegati in posti infimi e fatiscenti oggi giorno vengano inseriti in cartelloni prestigiosi come quello del Rock In Roma. Questo fa sì che nel pacchetto siano comprese anche hostess che porgono volantini di centri benessere (!!!), cappellini giallo fosforescente sponsorizzati Postepay, gomme da masticare di una nota marca nostrana, preservativi di una altrettanto nota casa produttrice, e così via. Tutte cose impensabili qualche anno fa, e forse, almeno dal mio punto di vista, era decisamente meglio prima. Se ai vecchi Monsters Of Rock durante gli show volavano da una parte all’altra dell’arena bottiglie piene di acqua e pipì, oggi volano i suddetti cappellini, e non mi sembra proprio la stessa cosa. Se prima era impossibile cercare di avvicinarsi al palco durante lo show degli americani senza il rischio di ottenere qualche frattura, oggi il pogo è misurato e circoscritto. Se prima la gente era impegnata ad assistere allo show, oggi la preoccupazione principale è messaggiare su Facebook e WhatsApp, oppure fare gli odiosissimi e immancabili selfie e gli interminabili video ricordo. Impietoso spaccato dei tempi che stiamo vivendo, e mai come in questo caso ho ritenuto adatto il vecchio detto “si stava meglio quando si stava peggio”. Personalmente penso che i pischelletti di oggi si godano un concerto neanche la decima parte di come facevamo noi all’epoca, ma forse sono solo io che sono invecchiato e vedo tutto con occhi troppo critici… Polemiche a parte, veniamo alla sostanza, e cioè alla musica delle tre band presenti questa sera qui a Roma.

THE SHRINE
I fantomatici special guest di cui si parlava da mesi ma che si sono palesati solo pochi giorni prima dello show sono gli americani The Shrine, capitati, penso, qui davvero per caso. Il loro doom/stoner impregnato di sonorità motorheadiane ben poco si addice alla serata. Per quanto i nostri ce la mettano tutta e siano anche mediamente bravi, sarebbero senz’altro stati più adatti al ruolo di headliner di un qualche sperduto festival stoner in giro per la penisola che a quello di opening band di un evento del genere. Troppo distanti le loro sonorità da quelle proposte dagli headliner, tant’è che a parte i soliti maniaci che si esalterebbero anche se sul palco ci fosse Gigione, l’accoglienza resta piuttosto tiepida. Il trio da parte sua si impegna veramente tantissimo, non lesina sudore e passione, ma alla fine la loro mezz’oretta a disposizione passa senza lasciare segni evidenti, tra una birra, una chiacchiera e un panino. Peccato, probabilmente in un’occasione differente avrebbero riscosso più successo…

Setlist:
TRIPPING CORPSE
DESTROYERS
RARE BREED
WORSHIP
THE VULTURE
DEATH TO INVADERS
DUSTED AND BUSTED
NOTHING FOREVER

AMON AMARTH
Il parterre inizia finalmente a riempirsi, e sarebbe stato strano il contrario visto che alle 21:00 esatte salgono sul palco i vichingoni Amon Amarth. Ammetto di non essere mai stato un die-hard fan degli svedesi, e che questa era la prima volta che assistevo ad un loro show. Beh, hanno dato vita ad una performance talmente possente e professionale che mi riuscirebbe davvero impossibile trovare difetti macroscopici da segnalare. I suoni sono stati perfetti, la doppia cassa della batteria pompava talmente tanto che la sentivi sbattere in petto, le chitarre non mi hanno entusiasmato molto, ma d’altra parte si trattava del loro suono tipico, non di un errore del mixer. La voce svettava imponente, e Johann Hegg ha dimostrato di essere anche un ottimo frontman, oltre che di possedere un gran vocione. Ha intrattenuto il pubblico spiccando sugli altri grazie anche alla sua incredibile altezza, incarnando alla perfezione lo stile vichingo di cui è portavoce. Le due immense teste di drakkar poste ai lati della batteria hanno reso il tutto ancora più suggestivo ed hanno contribuito alla riuscita di uno show veramente granitico. È spettato a “The pursuit of vikings” aprire le danze e subito la reazione del pubblico è stata calorosa, ed è rimasta tale per tutta la durata dello show. La scelta dei brani è risultata convincente, anche se qualche mid tempo di troppo ha rischiato di annoiare un po’. Ma niente paura, la band sa il fatto suo ed è riuscita a tenere in mano i metal kids grazie a brani come “Deceiver of the Gods”, “Runes to my memory” o l’immancabile inno “Raise your horns”, dove Hegg e soci hanno brindato con il pubblico con i loro immensi corni. Che dire, una performance veramente riuscita, sigillata da “Twilight of the thunder God”, ottimo antipasto per il piatto forte della serata, che non tarderà ad arrivare.

Setlist:
THE PURSUIT OF VIKINGS
AS LOKE FALLS
FIRST KILL
CRY OF THE BLACK BIRDS
DEATH IN FIRE
DECEIVER OF THE GODS
RUNES TO MY MEMORY
WAR OF THE GODS
RAISE YOUR HORNS
GUARDIANS OF ASGAARD
TWILIGHT OF THE THUNDER GOD

SLAYER
Sono le 22:30 precise quando l’intro “Delusions of savior” fa salire l’adrenalina a tutti i presenti (ben cospicua è risultata alla fina l’affluenza). Per me ogni concerto degli Slayer è un po’ come una rimpatriata tra vecchi amici, viste le innumerevoli volte che li ho visti live. E, come per questi ultimi, ci sono le serate in cui tutto fila liscio e quelle in cui c’è un po’ di tensione e qualche incomprensione, ma tutto sommato alla fine della fiera te ne torni a casa contento e soddisfatto per aver condiviso di nuovo bei momenti con i tuoi amici. Questo mi capita con Araya e company, e anche questa sera è andata così. L’inizio non è stato dei migliori a causa di un audio che penalizzava tantissimo la chitarra di Kerry King, e ha penalizzato per tutto il concerto la cassa di Bostaph. Fortunatamente loro da professionisti quali sono hanno dato il 100% fin dalle primissime note di “Repentless”, una bordata micidiale, una killer song che non sfigura affatto se confrontata con i vecchi classici. “Postmortem” fa capire che i nostri non hanno intenzione di scherzare, anche se tutta la prima parte dello show, ad eccezione della già citata “Postmortem” e dell’immancabile “War ensemble”, accolta come sempre con un boato, è incentrata su brani del passato recente della band. Forse un po’ troppo tutti lì uno di seguito all’altro, ma c’è da dire che oramai una “Disciple” può essere a tutti gli effetti considerata un classico. Il giro di boa si ha con “Mandatory suicide”, che apre la seconda parte dello show, quella incentrata su brani immortali ormai scolpiti nel granito. E se l’introduzione di “Dead skin mask” non è più una sorpresa per nessuno, di certo sono rimasto senza fiato quando ho sentito l’imponente riff di “Fight till death”, la vera chicca della serata. Chi conosce la band sa che i loro show sono piuttosto brevi ma intensissimi, ed è così che stiamo già per avviarci alla conclusione. Ovviamente i classici sono ancora tanti, e non possono certo mancare, ecco spiegata la cinquina finale veramente da infarto: “Season in the abyss”, “South of Heaven”, “Raining blood”, introdotta da un’intro sui timpani ad opera di Bostaph che fa salire la violenza e l’impazienza a livelli incredibili, l’altra chicca “Black magic” e il capolavoro “Angel of death”, con l’immancabile telone dietro la batteria per onorare l’amico scomparso Jeff Hanneman.

C’è poco altro da aggiungere, salvo qualche considerazione sui singoli… Tom oltre ad aver dato vita ad un’ottima prova vocale (da quando è impossibilitato a fare headbanging per i noti problemi alla schiena la sua voce è migliorata tantissimo), è stato sornione come sempre, ha interagito quel poco che basta con il pubblico, tenendolo in mano anche solo osservandolo dall’alto del palco, come solo lui riesce a fare. King è ormai il leader indiscusso della band. Macina riff su riff e si lancia volentieri in assoli assolutamente personali e riconoscibilissimi. Il suo attuale alter ego Gary Holt dimostra una maturità incredibile. Si sobbarca buona parte delle parti soliste, senza assolutamente cercare di scimmiottare Hanneman, ma al tempo stesso senza snaturare il senso dei brani, e riesce a farlo rimpiangere il giusto, onorandolo e rispettandolo dalla prima all’ultima nota. Qualche neo di troppo, invece, per Bostaph, che normalmente è una macchina da guerra implacabile, invece questa sera non ha reso al 100%, non so se per problemi personali o di audio (magari aveva noie al suo monitor da palco), ma tutto sommato nulla di così tragico da inficiarne del tutto la prova.

Setlist:
DELUSIONS OF SAVIOUR
REPENTLESS
POSTMORTEM
HATE WORLDWIDE
DISCIPLE
GOD SEND DEATH
WAR ENSEMBLE
WHEN THE STILLNESS COMES
YOU AGAINST YOU
MANDATORY SUICIDE
FIGHT TILL DEATH
DEAD SKIN MASK
SEASONS IN THE ABYSS
SOUTH OF HEAVEN
RAINING BLOOD
BLACK MAGIC
ANGEL OF DEATH

Il tempo dei rituali saluti da parte della band e dell’immancabile lancio di plettri e bacchette, ed ecco che l’arena in pochissimi minuti si svuota. Capisco che era un Martedì e molta gente il giorno dopo doveva lavorare (anche noi, e dovevamo anche tornare a Campobasso), ma la strana sensazione che lo spirito goliardico che respiravo ai vecchi concerti sia andato del tutto perso mi ha pervaso per tutta la notte. Qualcosa è definitivamente cambiato, come ho già detto in apertura, e la cosa mi piace davvero molto poco… Per quanto mi riguarda quello dato questa sera ad Araya e company non è certo un addio. I vecchi amici si perdono di vista per qualche tempo, ma prima o poi si incontrano di nuovo…
Report a cura di Roberto Alfieri

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