Come accennato precedentemente, una delle principali (oserei dire la più accreditata) fra le teorie di fondazione del death metal, è quella che vede negli Stati Uniti il territorio che ha dato i natali a questo genere musicale.
Che siano stati i
Death con il loro debutto “Scream Bloody Gore” del 1987 o i Possessed due anni prima con “Seven Churches” poco importa: fondamentale invece l’incredibile spinta che questi due lavori diedero a centinaia di gruppi che furono ispirati da tanta violenza musicale e incoraggiati ad osare sempre di più, tanto che molte giovani formazioni trovarono il “coraggio” di appesantire la loro proposta musicale solo dopo l’uscita di tali capolavori, insieme a quel “Reign in Blood” firmato Slayer che rivoluzionò non solamente la scena thrash ma che ebbe ripercussioni sull’intero panorama death metal, statunitense e non.
Abbandonando le influenze e passando a questo genere al 100%, vediamo che i primi passi in territorio statunitense furono sicuri e decisi a partire dai primi mesi del 1987.
Oltre al succitato “Scream Bloody Gore”, nell’underground americano cominciò a circolare una demo intitolata “Abominations of Desolation” di un giovane quanto immaturo gruppo chiamato
Morbid Angel. Intorno a questo monicker, oggi vero simbolo e sinonimo di death, si raggruppavano il chitarrista Trey Azagthoth, il misconosciuto bassista Sterling Von Scarborough ed il drummer Mike Browning.
Fautori ed iniziatori di una nuova corrente, quella dedita al satanismo “esplicito”, i Morbid Angel si stabilizzeranno intorno ad una formazione a tre, che vedrà l’ingresso del batterista Pete Sandoval e del carismatico bassista/cantante David Vincent dei Terrorizer, altra band che girovagava nell’underground in cerca di contratto e di cui uscirà l’unico disco praticamente a formazione morta nel 1989 con il seminale “World Downfall”, anno in cui come detto Sandoval e Vincent debuttavano con il primo lavoro dei Morbid Angel, intitolato “Altars of Madness”, mentre il chitarrista Jesse Pintado finiva negli inglesi Napalm Death, altro gruppo futuro leader della scena death mondiale.
Trovandosi il posto occupato da Sandoval, Mike Browning non perse tempo, cercando di sfruttare (in maniera ottima peraltro) l’interesse da parte delle case discografiche del tempo, in primis l’inglese Earache e l’olandese Roadrunner, attirate e risvegliate da una congrua possibilità di ricavare un bel po’ di denaro dal neonato movimento death metal. Così, salutati i Morbid Angel, il drummer floridiano fondò i
Nocturnus, una delle band più sperimentali ed oltranziste mai affacciatesi sul mercato, caratterizzate per la prima volta da un intenso uso di tastiere che andavano a formare un tappetone sinistro e malevolo, affascinante quanto spiazzante.
Dopo una marea di critiche e risate (ricordo perfettamente l’indignazione dei più puri ed intransigenti death metaller dell’epoca, nonché dei giornalisti del tempo che rifiutavano l’uso di uno strumento “poser” all’interno di una musica così pesante) ed un paio di demo datati 1988 (poi ristampati su cd nel 2003 dall’europea Karmageddon Media con l’esplicativo titolo “The Nocturnus Demos”), i Nocturnus seppero dapprima guadagnarsi la fiducia della Earache Records, diventando così compagni di etichetta proprio dei Morbid Angel, e successivamente conquistarsi la stima ed il plauso del pubblico di tutto il globo grazie all’autentico capolavoro del 1991 intitolato “The Key”, un vero concentrato di efferatezza, mixata ad un sound di tastiere davvero innovativo per quel tempo e con una specie di concept album alle spalle che al tempo fece scalpore, in soldoni un viaggio indietro nel tempo per uccidere Gesù Cristo. Purtroppo la favola Nocturnus terminò ben presto: alcune gravi frizioni all’interno del gruppo minarono la serenità e la stabilità dello stesso, ed il tutto sfociò nello sfortunato “Threshold” dell’anno seguente, comunque valido a livello di songwriting, sebbene ancora più sperimentale e lontano dal death canonico, ma penalizzato da una pessima produzione ed un booklet scandaloso, con addirittura i testi scritti in nero su fondali grigio scuro… Tutto questo portò all’abbandono del leader fondatore Mike Browning, alla perdita del contratto con la potente Earache e quindi alla prematura scomparsa di un grande gruppo. A nulla servì il contratto con la piccola Muribund ed all’uscita di un EP di due brani datato 1993 ed intitolato semplicemente “Nocturnus”, che sebbene contenesse musica di alto valore, passò completamente inosservato, con dati di vendita decisamente irrilevanti che portarono allo scioglimento definitivo della band, poi rinata (in maniera pessima…) nel 2000…ma questa è un’altra storia.
Parallelamente a queste formazioni, che in maniera fortunata o meno hanno partecipato alla storia del death metal, ce ne sono altre che sebbene siano state presenti nei primissimi anni del movimento non hanno mai riscosso alcun interesse, a volte in maniera ingiustificata, altre volte in maniera meritatissima.
E’ questo il caso dei primordiali
Master di Paul Speckmann, anche fondatore degli Abominations e dei Death Strike e, alla fine degli anni ’90 anche presenti negli europei Krabathor, che nonostante abbiano dato alla luce sin dal 1990 due album per la giovanissima Nuclear Blast (allora totalmente dedita alla musica estrema) non hanno mai riscosso simpatie di pubblico e critica…giustamente.
In effetti i Master, dopo il pessimo omonimo debutto, sono più che altro da segnalare per il discreto successore del 1991, intitolato “On the 7th Day God Created….Master”, non tanto per la musica in sé quanto per la presenza del giovane Paul Masvidal, l’eccellente chitarrista che poi ritroveremo qualche mese dopo in un ambito decisamente più elevato, ovvero al servizio di Chuck Schuldiner nel quarto album dei Death, intitolato “Human”, ormai veri padri del genere ed acclamati come formazione più apprezzata del momento dopo due capolavori di fila come il rozzo e seminale “Leprosy” ed il tecnico e raffinato “Spiritual Healing”, rispettivamente datati 1988 e 1990.
Dopo una fugace apparizione nei Death, Masvidal insieme a Sean Reinert, batterista presente su “Human” si fece spazio con il proprio gruppo, i
Cynic, caratterizzati da un’attitudine fusion, tecnicissima, miscelata in maniera pressoché perfetta con i classici elementi death. La Roadrunner fu svelta a mettere sotto contratto i Cynic che debuttarono nel 1993 con l’unico album della loro carriera, ovvero “Focus”, a giudizio di chi scrive un disco molto bello ma quasi totalmente rovinato da un arrangiamento completamente stravolto rispetto alle demo-tapes registrate l’anno precedente, alcune poi finite nella compilation “At Death’s Door”, demo-tapes in cui la componente death metal era molto più elevata e che sicuramente avrebbe maggiormente attirato l’attenzione dei death-metallers dell’epoca che invece ignorano bellamente un “Focus” troppo difficile ed intricato per essere facilmente digerito, tanto che la band venne presto silurata per scarse vendite.
Sentiero perlomeno simile fu quello degli
Atheist, all’inizio conosciuti come R.A.V.A.G.E., altra band che, sicuramente in maniera più convincente e redditizia, mostrava come fosse possibile unire brutalità a tecnica e genialità. Il gruppo proveniente dalla Florida nel 1989 (ma il disco fu registrato alla fine del 1988!) squarciò il panorama death metal con uno dei lavori più completi e sbalorditivi mai usciti e, probabilmente, ineguagliato in futuro, anche grazie alla realizzazione del videoclip omonimo che fece davvero il giro del mondo, trasmesso a ripetizione anche qui in Italia sull’emittente televisiva “Videomusic”. Così “Piece of Time”, questo il titolo, mostrava una band assolutamente perfetta, sia dal punto di vista tecnico, che dalla coesione che dal songwriting, tanto brutale quanto inaspettato e sorprendente. Anche in questa occasione, la sorte fu nemica di un gruppo death. Il leader carismatico della band, il bassista Roger Patterson, morì in un incidente stradale, rimpiazzato da Tony “Faccio tutto Io” Choy, famoso all’epoca per suonare contemporaneamente in 3 o 4 gruppi sparsi in tutto il mondo. Il supporto di una casa discografica non all’altezza, la Active Records, con una conseguente distribuzione davvero scarsa e la progressiva pazzia della band, sempre più impegnata a dimostrare la propria abilità tecnica e sempre meno concentrata a scrivere buone canzoni, portò gli Atheist ad un prematuro scioglimento: il primo passo fu la pubblicazione del secondo “Unquestionable Presence” del 1991, lavoro in ogni caso buono ma che lasciò spiazzati tutti gli estimatori del debutto, trovatisi a combattere con un lavoro che man mano si allontanava dalla musica estrema e che sempre di più concedeva alla sperimentazione.
Il malcontento generale del pubblico, denotato chiaramente da dati di vendita buoni ma in netta crisi rispetto al debutto, portò la band ad un primo scioglimento che pose la band in pausa per qualche mese.
L’intervento della Roadrunner, che nel frattempo aveva messo gli Atheist sotto contratto, convinse la band a riunirsi per racimolare un po’ di denaro, spargendo comunque il verbo degli Atheist in tutto il mondo grazie ad una distribuzione eccezionale. Purtroppo, quella sperimentazione accennata su “Unquestionable Presence” divenne completamente fine a se stessa, e quindi irritante, nel successivo ed ultimo “Elements”, datato 1993. Nonostante tutti gli sforzi di marketing, i responsabili della label non poterono far altro che constatare, come nel caso dei Cynic, dei dati di vendita prossimi allo zero e licenziare quindi la band che, dopo poco, si sciolse per la seconda volta, questa volta definitivamente.
Una storia, come si può osservare, che ha molto in comune con i Cynic e con un’altra band, stavolta europea, che purtroppo non ricavò insegnamento da questa storia e diede luogo al terzo licenziamento in pochi mesi, sempre paradossalmente ad opera della Roadrunner. Ma dei Pestilence, questa la band in questione, parleremo nei prossimi capitoli della guida.
Chi invece non solo evitò il licenziamento (ancora sotto Roadrunner!!!) ma anzi fece riscontrare buonissimi dati di vendita (perlomeno fino all’arrivo del ciclone grunge che spazzò via in pochi mesi tutta la scena death mondiale, ridimensionandola di nuovo a livello underground), furono i
Sadus, band particolare per provenienza, proprio da quella Seattle in cui mossero i primi passi le formazioni alternative che poi causarono la morte del genere e conseguentemente di molte formazioni death metal, tra cui proprio i Sadus.
Attivo sin dai primi mesi del 1986, il quartetto di Antioch è uno dei primi ad uscire sul mercato grazie allo strepitoso “Illusions”, datato 1988 ed uscito ancora una volta per Roadrunner, un condensato di ferocia e tecnica sparato a 200 di metronomo, con una pulizia ed una velocità davvero terrificante. Dopo uno splendido successore, intitolato “Swallowed in Black” (1990) e maggiormente dedito a tonalità più classicamente death metal, e la ristampa del primo album con un altro titolo (“Chemical Exposure”, copertina diversa ma stessa tracklist), arriviamo al terzo lavoro intitolato “A Vision of Misery”, datato 1992, che seppur conservando gran parte delle peculiarità del songwriting dei Sadus, pigia maggiormente l’acceleratore sulla componente squisitamente tecnica del quartetto, risultando nuovamente ostico come accaduto con Cynic e Atheist, anche se solo in maniera marginale. Ciononostante, un leggero calo di vendite fa prendere alla band la decisione di mettersi in pausa, pur senza il provvedimento della label, che prende atto della scelta della band. Dopo un lungo periodo di pausa, la band si riunisce nel 1997 e dà luogo all’inutile “Elements of Anger” per Mascot Records, dopo di che si mette in pausa di nuovo.
Tuttavia una peculiarità di questo gruppo, tra le altre, è quella di non essere mai veramente con le mani in mano: il batterista Jon Allen dopo alcuni anni entrerà nel giro Testament (e di riflesso nel progetto del chitarrista Eric Peterson “Dragonlord”) mentre il bassista Steve Di Giorgio, uno dei più rinomati ed abili bassisti della scena metal in generale, prenderà parte a diversi albums e sarà guest di molte bands e progetti, tra cui soprattutto “Human” (quello dei due Cynic…sì lo so, le storie si intrecciano e diventano a volte complicate! NdGraz) ed “Individual Thought Patterns” dei Death, rispettivamente editi nel 1991 e nel 1993, senza dimenticare anch’esso Testament, Dragonlord, Iced Earth ed ancora…
Da non scordare invece una importante collaborazione di Steve Di Giorgio quando ancora non era un personaggio famoso… Infatti, facendo un salto indietro nel 1987 al debutto dei Death intitolato “Scream Bloody Gore”, troviamo alla batteria un losco personaggio di nome Chris Reifert che, una volta pubblicato il disco, decise di lasciare la band di Chuch Schuldiner, trasferendosi dalla Florida a San Francisco, e fondando gli
Autopsy, una delle formazioni minori più significative del panorama death metal, ma a ben guardare una delle prime ad essere inquadrate perfettamente nel movimento death metal puro al 100%.
Proprio Chris Reifert, passato per l’occasione anche dietro il microfono, chiede a Steve Di Giorgio di registrare il grandioso debutto della band statunitense, ovvero quello splendido “Severed Survival”, pubblicato dalla Peaceville nel 1990. A differenza dei Sadus, la musica degli Autopsy si caratterizza per la sua monumentale lentezza, per i tempi cadenzati, a volte sfioranti il doom e per l’agonia che viene trasmessa dalla musica scritta da Reifert. Tuttavia la magia dura poco, e solo il successivo “Mental Funeral” (1991), pur essendo inferiore anche se di poco al predecessore, si salva. Dopo ciò, è una collezione di aborti da parte di Reifert, in ordine: la pubblicazione di “Acts of the Unspekable” (1992), con lo spostamento su tematiche sociali/politiche che appaiono non consoni ad una band che finora ha sempre parlato di tombe, autopsie e cadaveri; spaventato da un calo impressionante di popolarità, Reifert si getta a corpo morto nel demented gore di “Shitfun” (1995) album ridicolo quanto la sua copertina…gli Autopsy sono ormai la parodia di se stessi e vengono accantonati da Reifert per dar vita agli Abscess, di cui non vi parlerò data la pena procurata a chiunque ne sia venuto a conoscenza.
Come si può notare da quanto scritto sopra, il movimento statunitense sembra comunque incardinarsi intorno alla figura di Chuck Schuldiner e dei suoi Death: tuttavia all’appello mancano ancora due band fondamentali che hanno segnato in maniera imprescindibile tutta la scena death statunitense e che sono legate in maniera più o meno stretta con Schuldiner: parliamo dei
Massacre e degli
Obituary.
I primi, benché non siano noti ed ignorati dai più, sono stati insieme ai Possessed i prime-movers definitivi di tutto il movimento death mondiale ed è un peccato che oggi nemmeno siano ricordati ed annoverati come formazione primordiale di questo genere. Questa parte di guida tenterà di illustrare la storia dei Massacre.
Fondati in Florida nei primi mesi del 1984 (!) da Allen West (futuro chitarrista degli Obituary) e dal batterista Bill Andrews, i Massacre videro la loro prima formazione completata con l’arrivo del chitarrista Rick Rozz e dell’imponente singer Kam Lee, che qualche mese prima avevano suonato nelle prime incarnazioni dei Death. L’anno successivo West fuoriuscì dalla band per unirsi agli Xecutioner (futuri Obituary) e fu sostituito da Terry Butler al basso: con questa formazione a quattro, i Massacre erano pronti al debutto discografico quando, ad eccezione di Kam Lee, vennero convocati da Schuldiner per le registrazioni del secondo disco dei Death, “Leprosy” del 1988, causando così il primo scioglimento della band, con un Lee imbestialito nei confronti del fondatore dei Death.
L’anno successivo, Lee riformò i Massacre con Rozz alla chitarra e Joe Cangelosi dei Whiplash, famoso gruppo thrash (all’epoca), ed incise con questa formazione un album intitolato “Second Coming” ma mai pubblicato a causa della mancanza di supporto da parte di una etichetta discografica. Dopo che Butler ed Andrews finirono di registrare anche il successivo album dei Death (“Spiritual Healing”, 1990), furono richiamati da Kam Lee nei Massacre e finalmente, nel 1991, dopo ben 7 anni di difficoltà ed imprevisti, riuscirono a pubblicare il disco di debutto, intitolato “From Beyond”, per la Earache. Un album davvero ottimo, con una produzione davvero esagerata (rimarrà nella storia la distorsione della chitarra) e la voce di un bestiale Kam Lee che purtroppo però non furono sufficienti a garantire un futuro ai Massacre. Dopo qualche mese uscì un EP “Inhuman Conditions” poi, il buio. Non sappiamo per quale motivo, la band risultò scomparsa fino al 1996, anno in cui la Earache pubblicò il terribile “Promise” con i soli Rozz e Lee della line-up originale. Vendite giustamente a zero ed ecco immancabile lo scioglimento.
Un gruppo che non ha mai deluso invece è quello degli
Obituary. Formati nel 1985 da Allen West, appena uscito dai Massacre, con il nome di Executioner, poi cambiato in Xecutioner per evitare casi di omonimia con un’altra band statunitense, gli Obituary dopo 4 anni di gavetta riuscirono a trovare un contratto (indovinate con chi? Esatto, Roadrunner) e pubblicarono quindi il loro debut nel 1989 con l’acerbo “Slowly We Rot”. Punto di forza degli Obies, un songwriting sempre molto efficace, saldamente legato con i canoni più classici del death metal, basato su ritmi lenti ed ossessivi caratterizzati da qualche sfuriata qua e là, e soprattutto l’inconfondibile scream di John Tardy, un vero inno al death fatto voce, una delle poche ad essere sempre perfettamente riconoscibili. Il vero capolavoro arriva subito l’anno seguente con quel “Cause of Death” che consegna la band all’Olimpo della musica estrema, grazie al tocco di classe dovuto all’entrata di James Murphy, sostituto del defezionario (per un solo album) Allen West. Fino al 2000 è un collezionare successi fino a che, per contrasti con la Roadrunner, la band si scioglie. Tutto questo fino a pochi giorni fa, con la notizia di un ritorno sulle scene della band, nella formazione storica.
Il nostro viaggio nel death metal statunitense sta per volgere al termine ma manca ancora un passaggio importante, visto dai più come la corrente che più si contrappone al death metal tecnico di cui abbiamo parlato qualche riga sopra. Stiamo parlando della corrente del brutal death, ovvero quel genere che fa dell’attacco sonoro il proprio valore massimo, senza concessioni alla melodia, generalmente sparato a tutta velocità, con la voce caratterizzata da un suono gutturale e profondo. Maestri in questo, ed anche leader mondiali delle vendite a livello death in generale, sono i veterani
Cannibal Corpse, probabilmente il gruppo universalmente più riconosciuto come icona della musica estrema. Fondati nel 1989, i Cannibal Corpse sono passati attraverso una decina di album, molteplici cambi di line up (clamoroso quello del 1995 con la dipartita di Chris Barnes, poi fondatore dei mediocri Six Feet Under, e il reclutamento di George “Corpsegrinder” Fisher dai Monstrosity) ed innumerevoli problemi con la censura, dovuti a testi davvero estremi e copertine imbarazzanti, tuttavia il tempo non ha scalfito la loro proposta musicale che, se possibile, è divenuta ancora più letale e pesante rispetto ai primi violenti ma minimalisti lavori.
Accanto al gruppo di Buffalo, trasferitosi poi nei caldi lidi della Florida, possiamo affiancare sicuramente, oltre ad
Incantation ed
Immolation, più o meno cloni dei primi Morbid Angel, i
Suffocation, formatisi agli inizi degli anni ’90 ed approdati sul mercato con il debut “Human Waste” del 1991 (Relapse Records), seguito dal capolavoro della band nel 1992 intitolato “Effigy of the Forgotten”, tanto per cambiare sotto Roadrunner. Davvero difficile riscontrare in altre band un così alto concentrato di brutalità ed efferatezza quanto quello rintracciabile in questo lavoro dei Suffocation, con sugli scudi il lavoro davvero bestiale di Josh Barohn, condiviso all’epoca con gli Autopsy, e di Frank Mullen alla voce che sembra indemoniato da quanto è convincente la sua prova. Dopo il parziale scioglimento del 1995, dopo la pubblicazione dell’ancora ottimo “Pierced From Within” ed il completo split del 1998 dopo l’EP “Despise the Sun”, i Suffocation si sono da poco riformati con la pubblicazione del nuovo “Souls to Deny”, nuovamente su Relapse.
Oltre ai Cannibal Corpse, c’è un’altra seminale band che, due anni prima ovvero nel 1987, si era spostata da Buffalo in Florida: parliamo dei
Malevolent Creation, o più praticamente di chi gira intorno alla figura del chitarrista Phil “You Know Man” Fasciana. Infatti i Malevolent Creation nel corso degli anni solo una volta sono riusciti a mettere due line-up uguali di fila (periodo 1998-2000), con innumerevoli cambi, ritorni, licenziamenti e quanto altro. A momenti alterni, i Malevolent Creation sono l’essenza della purezza del death metal: per stessa ammissione di Fasciana “only speed is important”, la band non fa altro che pestare duro, cercando in ogni disco di essere più veloce e pesante della volta precedente, rendendosi da una parte sicuramente non un gruppo particolarmente vario ma dall’altra una sicurezza di trovare quello che ci si aspetta da una band con un nome simile. Fra i lavori più acclamati e riusciti, annoveriamo “In Cold Blood” ed “Envenomed” parlando della storia più recente della band (1997 e 2000) ed i leggendari primi albums “The Ten Commandments” (1991) ed il capolavoro assoluto “Retribution” (1992), entrambi sulla sempiterna ed onnipresente Roadrunner.
Chiudo questa rassegna con due bands a nostro avviso dalle fortune alterne, una autrice di un paio di lavori fenomenali che gli stanno valendo per tutta la carriera nonostante la pubblicazione in serie di molti album deludenti, ed un’altra invece sempre impeccabile nelle uscite ma che mai ha potuto raccogliere quanto meritatamente seminato nel corso degli anni: stiamo parlando rispettivamente di
Deicide e
Monstrosity.
I primi, formatisi nel 1989, hanno avuto il merito di aver saputo dare alla luce un paio di album letteralmente fenomenali, peraltro i primi due, come l’omonimo del 1990 e “Legion” nel 1992. Dopodiché, più folklore che altro, con le risibili dichiarazioni del leader Glen Benton, la stampa a fuoco della croce al contrario in fronte, il nome del figlioletto scelto come Demon, le polemiche a causa dei testi ferocemente anti-cristiani, le proteste ed i sabotaggi delle associazioni cristiane statunitensi e via dicendo… Tornando alla musica, un paio di dischi buoni ma nulla più (“Once Upon the Cross” e “Serpents of the Light”, 1995 e 1997) e poi il crollo completo con tre lavori uno più imbarazzante dell’altro, fino all’ultimo pessimo “Scars of the Crucifix” del 2004, che ha segnato anche l’abbandono della vecchia etichetta (sì, ancora Roadrunner…) dopo 8 albums e 14 anni di collaborazione, ed il passaggio alla Earache. Nonostante questo, i Deicide sembrano godere di un credito infinito con la fortuna anche se ultimamente le cifre di vendita si stanno abbassando di parecchio e le collaborazioni esterne come quella con i Vital Remains stanno minando la salute della band, che comunque ha il pregio ed il merito, questo bisogna ammetterlo, di aver saputo mantenere sempre la stessa line up nel corso degli anni, fatto più unico che raro.
Cosa che invece non è mai riuscita per più di qualche mese ai
Monstrosity che, proprio a causa di una continua ed estenuante instabilità, non sono mai riusciti a mantenere alta l’attenzione del pubblico e l’interesse delle case discografiche, anche perché ogni uscita vede almeno 3 o 4 anni di pausa, dovuta alla riorganizzazione della formazione. Basata sull’unica figura stabile del batterista Lee Harrison, i Monstrosity hanno debuttato relativamente tardi, nel 1992 con lo storico “Imperial Doom”, ma segnalandosi subito in maniera incredibile come band death metal bestseller di quell’anno, con delle cifre di vendita davvero alte per un gruppo al debutto, causando la felicità della Nuclear Blast.
Caratteristica peculiare dei Monstrosity, quella di saper unire in maniera eccelsa una considerevole brutalità con una indiscutibile abilità tecnica, testimoniata dalla presenza in line up di quel Jason Gobel che un anno più tardi avrebbe inciso “Focus” dei Cynic. Purtroppo, ben quattro anni di attesa hanno separato questo album dal successivo “Millennium”, disco valido sebbene più lineare e classicamente death, e penalizzato da una scarsissima promozione e distribuzione. Il conseguente abbandono del singer Corpsegrinder verso i lidi dei Cannibal Corpse sembrava porre la parola fine sulla storia dei Monstrosity, tuttavia dopo altri 3 anni di attesa, nel 1999, i nostri danno alla luce il fenomenale “In Dark Purity”, con Jason Avery alla voce e Kelly Conlon al basso (che quattro anni prima aveva suonato su “Symbolic” dei Death…), uno degli esempi più alti di death metal della storia, che fonda insieme tutte le migliori caratteristiche del genere. Sicuramente un vero capolavoro, purtroppo ancora una volta ignorato dai più a causa della scarsa reperibilità del prodotto ma che non può passare inosservato negli anni, assumendo man mano che il tempo passa lo status di “cult-albums”.
Il capitolo che riguarda il death statunitense si conclude qui. Mi rendo conto di aver omesso molte bands che sono state importanti per il genere (mi vengono in mente Decomposed, Devastation, Broken Hope, Deceased, Disincarnate, Mortician e Resurrection) ma credo di aver inserito tutte le fondamentali ed aver delineato in linea sommaria tutti gli svolgimenti, impetuosi e frenetici, di quegli anni. Anni che appaiono oggi così lontani ma che, per chi li ha vissuti, sono rimasti nel cuore e sembrano solo uno sguardo indietro nel tempo.
E, come diceva la campagna pro-death metal della Nuclear Blast nel lontano 1991…
POOR HUMANS, YOU’RE LOST – THE FINAL DECLINE OF HUMANITY !!!