Gleb Kolyadin: strategie oblique

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È uno degli ultimi tastieristi che cito nel mio libro, per cui non potevo farmi scappare l’occasione di parlare con il formidabile (e sorprendentemente loquace) Gleb Kolyadin, protagonista di una conversazione ricca di spunti intriganti. Buona lettura!

(foto di Julia Kulinchik e Alexandra Churkina)
“The Outland” è disponibile su Bandcamp dalla fine del 2022, ma è uscito per Kscope solo recentemente. Come mai?
Ho registrato l’album nel 2021 per una possibile pubblicazione a metà del 2022. Ma sfortunatamente, a causa della guerra, è tutto slittato diverse volte. Non pensavo che ci sarebbe voluto tutto questo tempo, ma dopo alcune anteprime alla fine del 2022, la stampa ufficiale è avvenuta a luglio di quest’anno. È stata davvero un’esperienza singolare, e sono entusiasta del fatto che finalmente questa musica possa essere ascoltata. È un capitolo chiuso, soprattutto considerando quanto tempo è passato dalla composizione a oggi, e quanto è cambiata la mia vita in appena un paio di anni.
Quali sono le principali differenze con il tuo debutto del 2018?
Il primo album è stato abbastanza avventuroso. Ho sostanzialmente messo insieme tanti frammenti musicali che avevo in mente cercando di trovare una forma coerente. Alla fine il risultato è complesso e, a tratti, anche “strano”. Amo il prodotto finito, ma è praticamente impossibile da riprodurre dal vivo, considerando il contributo dei tantissimi ospiti eccezionali che non riuscirei a mettere insieme sullo stesso palco. Non avevo nemmeno le idee chiare sul suono che volevo, ma grazie al mio produttore e tecnico audio Vlad Avy siamo riusciti ad aggiungere colori sperimentando poco alla volta. Per “The Outland” è stato tutto molto più pianificato e a fuoco. Sapevo in partenza che sarebbe stato un lavoro interamente strumentale e meno caotico. Le composizioni erano definite ancora prima di sedermi al pianoforte, grazie anche a uno stato mentale particolarmente positivo nonostante la pandemia. La musica è risultata brillante e piena di energia, e ne ero felice perché di solito per me è più complicato scrivere musica di questo tipo che musica triste e cupa. In poche parole, “The Outland” mi sembra più strutturato, con arrangiamenti particolarmente curati. Vedo questo album come come una piccola casa accogliente con diverse stanze, tutte organizzate e in ordine, dove puoi stare diverso tempo a esplorare ogni dettaglio. Al contrario, il mio primo disco era più simile a una casa abbandonata, con muri cadenti e scale verso l’ignoto.
Come scegli gli ospiti da coinvolgere nei tuoi dischi?
Di solito avviene tutto in maniera molto naturale. Chiedo a persone con cui ho già lavorato o che conosco. Per esempio, io e Vlad Avy ci conosciamo da diverso tempo, da prima ancora che venisse pubblicato il primo album degli iamthemorning. È un professionista assoluto, e mi ha sempre aiutato in tutti questi anni. Non riuscirei a lavorare senza di lui. Oltre ad aver mixato e prodotto “The Outland”, ha registrato anche tutte le chitarre. Sapevo dall’inizio anche che avrei chiesto a Gavin Harrison di suonare la batteria perché ci conosciamo da tempo e sono sempre impressionato dal suo talento. Sono abituato a comporre in maniera molto dettagliata, per cui ho bisogno di avere intorno a me musicisti estremamente preparati. Servono persone capaci di “sentire” la musica, di aggiungere un tocco personale e di divertirsi nel farlo. Ecco perché non posso chiamare chiunque; la fiducia e un rapporto di amicizia consolidato sono fondamentali. La musica ha la priorità su tutto, per cui non vado alla ricerca dei “grandi nomi” a tutti i costi. Ciò che conta davvero è che il risultato finale sia fantastico, e questo richiede artisti sensibili ed esperti. Ho poi una vasta rete di contatti dai tempi del college e del conservatorio, per cui non è difficile trovare musicisti classici quando servono. Ma ancora una volta, ho fiducia in tutti coloro che partecipano alle registrazioni. Ad esempio, per “The Outland” ho coinvolto un percussionista fantastico, Evan Carson. Abbiamo suonato insieme dozzine di volte con gli iamthemorning. Ho fiducia totale in lui, so che la nostra collaborazione impreziosisce la musica che facciamo. A volte le scelte sono più spontanee, e invito qualcuno che magari non conosco personalmente ma che so che potrebbe portare a qualcosa di interessante. È il caso di Tony Levin, il cui coinvolgimento è il frutto di una chiacchierata con Gavin Harrison. Volevamo includere una parte di contrabbasso elettrico in “Mercurial”.

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Puoi dirci qualcosa di più del progetto “Water Movements”?
L’idea di questo album risale alla fine del 2020. Stavo già lavorando a “The Outland”, ma volevo comunque pubblicare un disco “intermedio” per i fan. Negli anni ho sempre avuto una specie di diario musicale dove abbozzo idee o musica per i teatri con cui collaboro. In totale ho accumulato circa 400 di questi frammenti. Ho scelto quelli che più mi ricordavano l’acqua e li ho registrati in studio con un pianoforte. Tutto il processo è durato poche settimane. Vorrei registrare altri frammenti in maniera simile, non ho solo musica pianistica a disposizione. Teoricamente potrei addirittura smettere di comporre e rimettere mano solo alla musica che ho già scritto! Ma è impensabile per me smettere di comporre, una parte di questo materiale è disponibile sul mio Patreon. Vediamo come vanno le cose. Mi piacerebbe riuscire a pubblicare un album all’anno.
Tu e Marjana Semkina - la tua partner negli iamthemorning - perseguite una carriera solista. Come decidete che utilizzo fare delle composizioni, una volta terminate?
Scriviamo sempre canzoni specifiche per gli album degli iamthemorning. È un processo assolutamente collaborativo. Ovviamente, può accadere che io mandi un’idea a Marjana che poi non si traduce in una canzone finita e allora decido di usarla per un mio album solista. Ma è un’eccezione. Ti dirò di più, per gli ultimi due album “Lighthouse” e “The Bell”, la pianificazione di gruppo è stata particolarmente precisa. Sapevamo che dopo una canzone tranquilla, volevamo un brano più frizzante che finisse, ad esempio, in Re maggiore, in modo che l’introduzione della canzone successiva in Sol minore fluisse in maniera naturale. Sono molto meticoloso in questo approccio e ho influenzato molto Marjana in questo senso. In altre parole, ogni album non è una raccolta di canzoni messe insieme come capita. È una sequenza di canzoni pensata attentamente. Ecco perché teniamo separati gli album solisti dai lavori di gruppo. Anche musicalmente, il materiale scritto insieme è spesso così diverso che dubito che potrei usarlo per un mio album solista.
Quali sono le tue influenze principali come pianista e come tastierista?
Può sembrare strano, ma negli ultimi anni mi sono convinto che la musica altrui non mi influenzi più particolarmente. Mi spiego meglio, certo è che ascolto tantissima musica di artisti molto diversi, ma a un certo punto mi sono reso conto che l’ispirazione arrivava da cose diverse, come i film o le interazioni con persone interessanti. Questo è uno dei motivi per cui mi piace scrivere musica per il teatro. In questo caso non ci sono riferimenti particolari, solo un’idea generale dell’umore complessivo da trasmettere con la musica. C’è un aspetto visuale, un copione, e degli attori che lo rendono vivo. Questo mi aiuta a comporre qualcosa di unico, fatto su misura per una specifica scena. In altre parole, cerco di trovare ispirazione da altre forme artistiche, non solo da quello che ascolto ma anche da quello che vedo e che provo. Ovviamente continuo ad ascoltare nuova musica, alla ricerca di suoni inusuali sulle piattaforme streaming. Ma anche se trovo qualcosa che mi piace, sono più interessato all’effetto della musica sulla mia percezione, a quali emozioni provo mentre l’ascolto, quali immagini ed emozioni evocano. Quando mi siedo a comporre, comincio dall’umore e dallo stato mentale in cui mi trovo. Catturo un embrione di idea e la trasformo in musica.
Quanto incide la tua formazione classica sulle tue composizioni?
La formazione classica mi ha dato un’esperienza immensa, e credo davvero di dover ringraziare molto per aver studiato per anni come pianista classico. Prima di tutto, mi interessa capire la musica dal punto di vista formale e scoprire quanto può essere intricata. Inoltre, avendo suonato vari repertori pianistici, sono in grado di vedere la musica da prospettive diverse, scovando ogni volta qualcosa di nuovo anche in un brano che già conosco. Nella musica classica hai lo spartito, ma per quanto dettagliato possa essere rimane sempre un po’ astratto. Ad esempio, è impossibile indicare graficamente il tempo in maniera inequivocabile, così come è impossibile precisare come un accordo o una melodia debbano suonare. Lo spartito è una guida che non ti permette solo di suonare i tasti giusti, ma anche di esplorare diversi livelli musicali. Ogni volta puoi interpretarli differentemente, concentrandoti su molteplici aspetti. Puoi esplorare il mondo e te stesso attraverso la musica, senza mai trovare un’esecuzione perfetta. Alla fine, la musica non è solo suonare su un palco; è l’opportunità di crescere come essere umano. La mia educazione musicale è stata strutturata in maniera tale da migliorare come persona, non per suonare il maggior numero di note possibili. Mi ha insegnato ad ampliare la mente, cercare le novità, rispettare il compositore e interpretare la musica a modo mio, rendendola rilevante e unica ogni volta. Questi sono solo alcuni dei concetti che ho acquisito studiando e che mi impegno ad applicare nella musica che compongo io stesso.

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Quanto tempo passi al pianoforte ogni giorno?
A dire il vero, ultimamente, passo poco tempo al pianoforte. Sono andato via dalla Russia l’anno scorso e solo recentemente mi sono trasferito nel Regno Unito, ma non ho ancora tutto “sotto controllo” e devo pure acquistare un pianoforte adeguato. Dedico comunque alcune ore ogni giorno a suonare un pianoforte digitale, a registrare o a modificare nuova musica. È quasi una routine per me, mi sento a disagio se un giorno non riesco a toccare la tastiera. Ma mi manca potermi esercitare su vero pianoforte per diverse ore al giorno. Per mantenere il mio livello ho bisogno di almeno due o tre al giorno di esercizio. Quando studiavo al conservatorio ero solito esercitarmi sei o sette ore al giorno, ma ora sono più concentrato sulla composizione.
Che musica ascolti nel tempo libero?
Ascolto moltissima musica nel tempo libero. Ad esempio, stamattina avevo voglia di musica folk e mi sono ascoltato diversi album di Michael McGoldrick. Ascolto spesso musica elettronica e parecchio jazz moderno, come Aaron Parks, Leszek Możdżer o Michael Volny. Mi capita di riascoltare spesso Sophie Hunger e mi piace quello che scrive Yvette Young. Amo anche il prog classico di Steve Hackett o di Mike Oldfield, oltre alla musica classica contemporanea di Steve Reich e Arvo Pärt. Mi fa piacere ascoltare anche certo rock più commerciale talvolta… insomma, ascolto davvero tanta musica! Ed è il motivo per cui quei servizi di musica streaming come Spotify di solito non funzionano bene con me. Non mi ci trovo quasi mai in quello che mi viene proposto.
Cosa suggeriresti a un giovane pianista che vuole fare della musica una professione?
Prima di tutto, cerca di capire perché vuoi fare della musica una professione e continua ad amare ciò che fai. È fondamentale continuare a fare nuove esperienze, imparare, definire obiettivi e sperimentare. Registra e documenta sempre quello che fai. Non chiuderti in te stesso, ma condividi con gli altri le tue creazioni. Ricorda di analizzare con lucidità i tuoi successi e tieni traccia della qualità del tuo lavoro. In altre parole, sii te stesso, ama quello che fai, dedicati anima e corpo alla musica e crea il tuo mondo unico. Non cercare mai di diventare migliore degli altri. Dimentica i “mi piace” sui social media, gli stream, le visualizzazioni e concentrati sulle tue unicità. Poco alla volta, vedrai che il mondo intorno a te comincerà a cambiare e arriveranno nuove opportunità perché stai percorrendo la tua strada e non quella di qualcun altro.
Intervista a cura di Gabriele Marangoni

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