I
But We Try It sono il classico esempio delle situazioni anomale che possono venire a formarsi nel sempre più strampalato mondo del metal. “Dead light” è l’esordio di questa band tedesca, prima della sua pubblicazione nessuno li ha mai sentiti nominare (voi sì? io no…). Eppure, qualcuno mi spieghi come, si sono ritrovati a lavorare in studio con Waldemar Sorychta (un nome una garanzia) e con in mano un contratto firmato con la Massacre Records. Beh, con questi presupposti, direte voi, si deve trattare senz’altro di un capolavoro. Ebbene no, mi spiace per voi ma “Dead light” arriva a stento subito dopo la sufficienza. E c’arriva, senz’altro, per la professionalità con cui è stato presentato, per l’ottima produzione di Sorychta, e per il missaggio di Siggi Bemm. E la musica? Beh, la musica non fa certo gridare al miracolo. Lo stile dei nostri, infatti, è il classico (metteteciquellochevoletevoi)core, a cavallo, appunto, tra thrashcore (molto poco), deathcore (un po’ di più), o più semplicemente metalcore, con una fortissima componente melodica ad opera delle due chitarre, i soliti stacchi e stop ‘n’ go, e il solito vocione stridente da parte di Jorn Preidt, che, peraltro, avrebbe potuto modulare un po’ meglio le sue melodie, troppo simili tra di loro da brano a brano. Cosa c’è che non va quindi? Beh, all’incirca quello che non va nel 90% delle pubblicazioni di questo genere. Il disco si fa anche ascoltare, ma manca di spunti memorabili. Le influenze di band come Heaven Shall Burd o In Flames sono ancora troppo presenti, e anche se i nostri sono molto professionali anche dal punto di vista tecnico/compositivo, non riescono a distinguersi dalla massa. E questo nonostante due o tre brani leggermente migliori degli altri (la coppia finale “Dead light I - II” e “City of ghost”), troppo poco, però, per portare l’album ben al di sopra della sufficienza. Tutto sommato, trattandosi di un esordio, si può in parte giustificare il combo teutonico, in quanto è normale che ci sia ancora un po’ di immaturità di fondo, e devo dire che le possibilità per un’evoluzione verso lidi più personali ci sono, ma allo stesso modo non posso esimermi dal far notare quanto ancora derivative siano le tracce di questo cd. La cosa che ho più apprezzato è stato il buon bilanciamento tra le parti più aggressive e thrashose, e quelle più melodiche, grazie ad un ottimo lavoro, come già accennato, dei due chitarristi Domink Ballreich e Tim Marxcors, capaci sia di rasoiate violente che di ricami più orecchiabili. Il tutto con un sempre presente senso di nostalgia, dovuto a soluzioni armoniche spesso decadenti e cupe. In poche parole, “Dead light” è il classico album che sicuramente rimarrà nell’anonimato, a meno che non si sia fan sfegatati del genere descritto. E questo perché è formalmente perfetto, ma poco coraggioso. Se i nostri avessero osato un po’ di più invece di adagiarsi su soluzioni già trite e ritrite, e quindi di sicuro impatto, il risultato finale sarebbe stato senz’altro differente.
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