Devo ammettere che prima di iniziare a scrivere questa recensione ho dovuto ascoltare più volte “Dark roots of earth”. L’ultimo lavoro dei
Testament, infatti, è un album abbastanza complesso, che alterna con estrema dimestichezza brani in your face e altri più riflessivi, oserei dire quasi progressivi, se mi passate il termine e lo applicate in chiave thrash. Questo dualismo da una parte rende il disco più vario e interessante, dall’altra fa calare un po’ la tensione, cosa che in un album di thrash metal non sempre equivale a qualcosa di positivo. Certo è che la band non poteva assolutamente limitarsi a sparare pezzi a mille, dopo tutti gli anni di carriera che ha sulle spalle e visto il livello di maturità a cui è arrivata oggi come oggi. Già, è proprio questa la parola chiave di questo disco: maturità. Perché maturi sono gli assoli di Skolnick, matura è la prova (magistrale) di Chuck Billy dietro il microfono, maturi sono i riff, articolati quanto basta per non risultare banali e monotoni, matura è la prova di Hoglan dietro le pelli, sempre più alieno e mostruoso, e matura è perfino la produzione di Andy Sneap, che dona all’album un sound potentissimo, moderno, ma al tempo stesso thrash, come ci si aspetta da un disco del genere, per non parlare della stupenda copertina di Eliran Kantor. Rispetto a “The formation of damnation”, uscito quattro anni fa, e a nove anni dal precedente capolavoro “The gathering”, c’è meno irruenza e più intelligenza, anche se in ogni caso non mancano i brani tritaossa. Basta ascoltare la devastante opener “Rise up”, piuttosto che la terremotante e splendida “True american hate” per capire che Billy e company sanno ancora come picchiare sui propri strumenti, e ce lo ricordano anche durante tutto il corso del disco e verso la fine, con altre mazzate tra capo e collo (“Native blood”, “Last stand of indipendence”). Sono presenti, però, anche brani “anomali” per lo stile del gruppo, una su tutte “Throne of thorns”, quasi otto minuti di divagazioni, o “A day in the death” e la titletrack. Insomma, di carne a cuocere ce n’è davvero tanta, la maestria della band si percepisce lungo tutto l’album, e soprattutto si capisce che stiamo parlando di un gruppo che a differenza di molti suoi più illustri colleghi (chi ha detto Big 4??) continua per la sua via, incurante di tutto e tutti, e dimostrando, con i fatti, il proprio stato di salute con ottimi album. Se proprio vogliamo trovare il pelo nell’uovo, secondo me a “Dark roots of earth” mancano quei 2-3 brani in grado di diventare nuovi classici dal vivo. Sicuramente la furia di “True american hate” o di “Rise up” non lascerà prigionieri sotto il palco, ma non so, tra tre, quattro, cinque anni, chi metterà di nuovo nel lettore questo album, piuttosto che rispolverare “The legacy” o “The new order”. In poche parole, tra lo scrivere un ottimo album, formalmente perfetto, e un nuovo capolavoro, che resterà per sempre negli annali della musica metal, ce ne passa… e questo non è un discorso nostalgico, semplicemente una constatazione dei fatti… In ogni caso, rispetto alla media degli album dei grandi del passato, ma anche delle nuove leve, “Dark roots of earth” dà la polvere a parecchia gente… Se solo ci fosse stata una nuova “Alone in the dark” o una nuova “D.N.R.”… ma non si può avere tutto dalla vita…
Per completezza, nell’edizione limitata troverete un bonus DVD e altri quattro pezzi: tre cover e una versione alternativa di “Throne of thorns”. Le cover? “Dragon attack” dei Queen, “Animal magnetism” degli Scorpions e “Powerslave” dei Maiden, ovviamente tutte e tre rivisitate nello stile Testament. Ce n’è per tutti i gusti, quindi…