«La coscienza (citta) non può comprendere il veggente e se stessa alla stesso tempo»
(Yoga Sūtra di Patanjali)
Maggio, giugno: avanza il caldo.
Torna con prepotenza il giallo estivo ed escono lavori attesissimi: questo Moksha, Infidelic dei californiani Rajas e Bones of Brave Ships dei londinesi Suns of the Tundra.
Il soggetto di questo commento, vuole lasciarci Qualcosa, è chiaro.
I 4 bavaresi ostentano uno stoner progressivamente meticcio "al vedanta" Indù.
E se da un lato, attraverso etichette divinatorie, appaiono egoespansi, dall'altro, cozzano con la smania occidentale di voler incidere sul palcoscenico.
I suoni che, nei pitagorici come in india, esistono a priori sono il vero veicolo
cosmico di informazioni.
Tutto vibra. Lo sanno anche i vermi, oramai.
Il difetto maggiore, che non sta nell'attitudine, è proprio delle scelte sonore:
tastieroni,
alcuni fraseggi striminziti
e accenti spiattellati.
Belle le plettrate stoner, belle le fasi evocative, belli gli strumenti acustici, bellissimi gli interludi e bello il fatto che non si canti.
Chi ci rimette, dicevamo, è proprio l'armonia musicale.
Apriorità è noia: è impertinenza yogica.
Questo album va letto in chiave "Duna Jam" affinchè l'evoluzione orientaleggiante (come tempio dell'universalità) regga almeno il tempo dell'ascolto.
Il paesaggio "emancipatorio", della Buddità che emerge dai veda, è un corso storico e trascendente che non è condensabile e trascrivibile in Queste stilizzate partiture rock.
"Se, il principale intento, come detto su, fosse quello di esser presenti, sarebbe opportuno augurar loro κρίσις e fortuna"
Si ricordi che l'universabilità di ogni creatura è più pregna e sconfinata delle facoltà provinciali di alcune nostre umane tendenze.
Sono stato oltremodo rigido?
Mi ammorbidisco nei decimi...
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