Se qualcuno se li fosse persi, difficile invero dopo l'ultimo disco, ritornano gli ispanici capitanati da una delle voci più sorprendenti che l'ultimo triennio ci abbia regalato.
In realtà, per chi li segue fin dal loro debut, c'è stata una domanda che ci ha costantemente martellato la mente e per la quale ci si stava facendo prendere da un'ossessione compulsiva.
La domanda, o le domande, erano poche e la prima non poteva essere che: ma questi sapranno ripetere il miracolo compiuto? Avranno trovato il loro spazio di evoluzione definito o saranno condannati a “coverizzare” loro stessi all'infinito? La voce di
Romero, vista la sovra esposizione nell'ultimo relativamente breve periodo, non finirà usurata dopo aver lasciato troppo velocemente impressa la sua traccia (un altro Khan!!)?
Insomma, legittime e doverese considerazioni alle quale un attento ascolto riesce a dare una risposta netta e cristallina.
Iniziamo con sfatare una falsa idea che può esserci. I
Lords Of Black non si riducono assolutamente solo al vocalist, ma sono formati da musicisti che rasentano la perfezione nelle esecuzioni, basti ascoltare cosa riesce a fare la sei corde, per non parlare dello "stirapelli"
Andy C. Per qualcuno, di cui rubo la scoperta, infatti la vera forza sta proprio nell'ex membro dei Saratoga e portatore d'ascia.
Passiamo poi a constatare che il songwriting è maturo, preciso e linarissimo. I brani sembrano stati dettati da Apollo in persona tanto sono compatti nello stile quanto variabili nella forma.
E' vero che immancabilmente ci sono richiami, magari ai Kamelot, piuttosto che ai Judas, con qualche tributo solistico al vecchio Malmsteen ed ai Symphony X, ma mai strutturali. Sempre e solo parti residuali di un insieme firmato con inchiostro indelebile
Lords Of Black.
Inoltre, la produzione è maestrale. Sicuramente grazie a Roland Grapow degli Helloween il quale è riuscito nell'impresa. Nulla, nessuna, neanchè la più piccola imperfezione di mastering, missaggio o suoni.
Infine, ciò che colpisce ancora una volta, anche se l'effetto blaster del secondo album non è più tale, è l'insieme del lavoro che pertanto merita un'attenta analisi.
Partenza decisa con "
World Gone Mad", senza la cavalcata frenetica con doppia cassa ma con un pepe di prog nell'intro e in fase di accoppiata chitarra-tastiera.
La successiva title track non lascia delusi in quanto prosegue in linea con la opener, ma questa volta il lavoro dei tasti bianconeri in sottofondo trascina l'apparente acquietarsi del ritornello. Anche più breve sarebbe stata sufficiente come lancio dell'album.
Finalmente in "
Not in A Place Like This" si sfodera un doppio pedale unito ad un bel riff cattivo, duro e che si abbina al meglio con la voce graffiante. Sorprende la variante melodica nel ritornello dove il calo di mezzotono impreziosisce uno dei brani più intensi dell'album.
Per aggiungere maggior speed ecco che arriva "
When a Hero Takes a Fall" la quale riesce bene nell'intento grazie ai cambi repentini di accordo, al ritornello epico, alla voce che sostiene il tiro senza mai vacillare o benchemeno cedere ed infine grazie all'assolo formato da lunghe note degna di rimanere nella storia.
Una pausa di riflessione la troviamo con "
Forevermore". Varia, senza un punto fermo su cui appigliarsi, lascia l'ascoltatore spaesato. Solo un ripetuto ascolto permette di scoprirla fino al punto da lasciarsi sfuggire un convinto Tu m’étonnes!
La semi-ballad già preannunciata è "
The Way I'll Remember", dove sembrerebbe che la voce accusa una poca dimestichezza con le parti più soft del brano, ma recupera decisamente in intensità intrepretativa nel refrain.
"
Fallin", bisogna dirlo, non apporta nulla in più di quanto già ascoltato, semmai conferma tutte le qualità, teniche, vocali e di produzione, già largamente emerse.
Ma ecco che con "
King's Reborn" si passa ad un livello superiore. Lo stacco quasi parlato con l'inserimento del riff sincopato farebbe drizzare le orecchie ad un sordo e da li si parte per un intricato insieme di strade. Viene da pensare che voglia essere il brano forse più costruito, visto lo spaziare da assoli a momenti senza voce ma di puro proseguo strumentale per finire con una potente linea vocale.
Si torna in carreggiata classic con "
Long Way To Go" dove il combo a briglie sciolte si lascia andare, nella prevedibilità del brano, ad una competizione di forza.
"
The Edge Of Darkness", dai tratti più soffisticati, preme nuovamente sul tasto del progressive, in particolare nel pre-ritornello e successivamente con una bellissima sovrapposizione di riff e voce, per non parlare dell'interludio a metà brano.
Infine, arriva una suite finale di undici minuti. Qua mi taccio per lasciare la sorpresa dell'ascolto e, soprattutto, lo stupore della scoperta.
Infatti, a commento finale di ques'opera ed in particolare a chi la reputasse solo un buon rimaneggio di ispirazioni già avute, dico che “I
l vero viaggio di scoperta non consiste nel trovare nuovi territori, ma nel possedere altri occhi, vedere l'universo attraverso gli occhi di un altro, di centinaia d'altri: di osservare il centinaio di universi che ciascuno di loro osserva, che ciascuno di loro è.” (Proust).
Ascoltiamo quindi con un nuovo, o altro, orecchio, aperto all'infinito verso la scoperta della musica.
A cura di Giovanni Pasinato