Gli storici deathster bavaresi
Fleshcrawl ci avevano lasciati nel 2007 con la pubblicazione del discreto
“Structures of death” e nulla all’epoca lasciava presagire che avremmo dovuto aspettare una eternità - dodici anni di pausa sono davvero un lungo, lunghissimo periodo di tempo per qualunque entità – per veder sugli scaffali dei negozi il suo successore.
Anche perché i teutonici avevano alle spalle una carriera di tutto rispetto con regolari uscite a partire dalla prima metà degli anni 90, ritagliandosi disco dopo disco una fetta sempre maggiore di consensi fra pubblico ed addetti ai lavori toccando, a mio parere, l’apice nel periodo 2000/2004 in cui pubblicarono un terzetto di platters micidiali per
Metal Blades (
“As blood rains from the sky”, “Soulskinner”, “Made of flesh”) in cui lo swedish death metal dei Nostri faceva tremare le casse dell’amplificatore.
Potete dunque immaginare come e quanto la notizia della pubblicazione di
“Into the catacombs of flesh” per
Apostasy Records ci abbia colto di sorpresa. Credo che nessuno di noi si sarebbe mai aspettato un ritorno in pista a pieni giri della band, considerato che in oltre un decennio di assenza dalla luce dei riflettori il death metal ha continuato a sfornare gruppi e dischi di valore assoluto.
Sì ma come è
“Into the catacombs of flesh”? Se lo enucleiamo dall’immancabile effetto nostalgia che immancabilmente un lavoro simile porta con sé (chi lo nega, mente), onestamente non è un lavoro che finirà nella top 10 del 2019 del più incallito devoto del Metallo Morto, ma nemmeno un prodotto spompato o svogliato.
Poteva uscire meglio? Certo.
Poteva durare qualche minuto di meno? Forse era il caso di tagliare una o due canzoni dal master finale.
Abbiamo visto ritorni sulle scene peggiori? Indubbiamente.
Il problema vero di
“Into the catacombs of flesh” è la suo alternare momenti di rovente swedish death metal zanzaroso a la
Dismember (v. la titletrack,
“Ossuary rituals”, “Funeral storm”) ad altri decisamente meno ispirati (v.
“Mass obliteration”, “Grave monger”) che fanno ci fanno calare l’attenzione durante il suo ascolto. La prova del vocalist
Sven Gross è sempre di livello assoluto e la passione che la band ci mette nell’eseguire i dodici pezzi finiti nell’album è palpabile, ma quest’ultima da sola non basta a rendere la prova finale memorabile.
In ultimo la produzione mi ha lasciato qualche perplessità perché, per quanto ormai si sappia “trattare la materia”, non riesce a dare quella marcia in più capace di fare la differenza.
In definitiva
“Into the catacombs of flesh” toglie un bel po’ di quella polvere che si era accumulata nel tempo in casa
Fleshcrawl, ma per riportare la band ai fasti passati è lecito aspettarsi qualcosa in più per la prossima uscita.
In ogni caso: bentornati!
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