Poco da fare: nel bene e nel male, l’uscita di un nuovo album degli
Iron Maiden è sempre in un certo senso l’evento dell’anno per quanto riguarda il Metal. E ogni volta è sempre un’occasione speciale visto che tornano i nostri beniamini che hanno aperto le porte dell’Heavy Metal a molti di noi e pure a moltissime band, influenzando per decenni band e sottogeneri differenti.
Sono passati sei album dal discusso
“The Book Of Souls” e con
“Senjutsu” si ritorna alla formula del doppio album con ben 82 minuti di musica edita dalla
Parlophone (che nel suo roster ha i
Beatles, giusto per renderci conto a che livelli di notorietà sono arrivati nel nuovo millennio).
Ma questi 82 minuti di musica come suonano? Beh, semplicemente come tutti gli album dal 2000 in poi con alcune piccole, grandi differenze: si continua con le canzoni lunghe e articolate, contornate da tanti, tantissimi intrecci chitarristici suonati dal trio
Smith/Murray/Gers, ma a ciò i classici ritornelli di grande presa sono stati quasi accantonati (a parte un paio di eccezioni), come quei cori da stadio (ricordate ad esempio nella precedente release
“The Red and the Black”?) sono di fatto assenti.
Una direzione sempre più intransigente e coraggiosa in un mondo nel quale la musica deve durare al massino due/tre minuti per poi passare subito ad altro in quella che è una feroce bulimia che non lascia nulla all’ascoltatore odierno.
Per quanto mi riguarda il diciassettesimo album in studio degli
Iron Maiden è un disco che sta nel mezzo: non è assolutamente un capolavoro (e per Dio, smettiamola di abusare di quel termine che ormai sta perdendo completamente di significato!), come non è assolutamente un ammasso di letame musicale (ah, questa triste moda di dover per forza andare contro le band più grosse che hanno fatto la storia e sono andate anche nel mainstream non la capirò mai…), ma un lavoro molto (troppo?) ambizioso e che inciampa in molte ingenuità.
Canzoni come
“Writing on The Wall” o la l’articolata
“Lost in a Lost World” ci mostrano forse i migliori momenti del disco, nei quali tutto funziona molto bene e ci sono delle novità molto interessanti: dall’intro Folk/Southern e il ritornello accattivante del primo singolo ai vari cambiamenti della seconda canzone abbiamo una band in palla e ispirata, grazie anche ad un gran gusto per le parti soliste di chitarra. Altre canzoni invece non sono altrettanto ben riuscite aimè, vedasi quel triste fan service di
“Stratego” che sarebbe stato meglio cestinare o la tripletta finale che presenta si tante idee interessanti e molte parti strumentali di un certo livello (ma con un chitarrista come
Adrian Smith abbiamo una garanzia assoluta in tal senso), ma anche gli stessi temi ripetuti per troppe volte, o agli intro e outro tirati troppo per le lunghe oltre ad essere a volte troppo simili tra di loro e ciò è un gran peccato perché sarebbe bastato un certo senso dell’equilibrio, quindi una bella sforbiciata al minutaggio qua e là per rendere il tutto più scorrevole, insieme a qualche variazione ritmica in più.
Anche le tastiere sono praticamente inutili e fanno un tappetto sonoro di poco conto, mentre
Bruce Dickinson è un peccato che oltre a cantare bene si sia dimenticato del suo ruolo di interprete: canta spesso su tonalità alte, giocando quasi mai su tonalità diverse e ciò è un peccato visto che avrebbe potuto dare nuove sfumature alle canzoni, come lo stesso
McBrain, che seppur faccia una perfomance molto meno statica rispetto ai due lavori precedenti è ben lontano anche solo dalla fantasia che aveva in
“Dance of Death” o in
“A Matter of Life and Death”, anche se qualche colpo da maestro lo mette ancora a segno, vedasi le ritmiche quasi tribaleggianti e marziali della title track.
Anche la diretta e concisa
“Days Of Future Past” è un altro pezzo di valore che sicuramente farà la gioia di molti nei live (se verrà inclusa nelle set list), mentre il resto della tracklist si muove sempre nella maniera detta poco fa con tutti i pregi e difetti già citati in precedenza, nella quale spicca l'interessante
"The Parchment". Senza contare la discutibile produzione che depotenzia le chitarre e le impasta, ma facile dare addosso al povero
Kevin Shirley quando poi a conti fatti è
Harris a pasticciare dietro alla console (e il
“Caveman” ha una lunga collaborazione in studio con
Joe Bonamassa, tanto per dire).
Mi rendo conto che questa recensione è molto verbosa, ma si sta parlando comunque di un lavoro di ampio respiro e molto lungo. Peccato davvero per certi peccati veniali e quelle tante piccole ingenuità disseminate in giro, sarebbe bastato davvero così poco per aumentare di molto le quotazione di
“Senjutsu”…
Un altro grande rammarico a mio parere è il fatto che il tema nipponico dell’album sia stato appena accennato nella title track e basta, al contrario ad esempio del tema apocalittico e oscuro che fu usato in maniera magistrale ai tempi del tanto criticato (non da me!)
“A Matter of Life and Death”, che avrebbe portato una bella ventata di freschezza al tutto.
Dopo tutti questi anni in circolazioni e con tutta la musica scritta dalla band è anche difficile pretendere di più e già il fatto che siano riusciti a fare meglio dello scialbo
“The Book of Souls” mi fa piacere.
Nota di gran merito per i vari assoli fatti dai tre chitarristi, quasi quasi sarebbe il caso di farne un bootleg con un collage di tutte le varie parti soliste dell’album vista la classe e il gusto dentro ai vari svisi.