Premessa #1: i Nevermore sono il mio gruppo preferito, lo sono diventati nell'istante stesso in cui un amico mi fece ascoltare "The River Dragon Has Come".
Premessa #2: i Sanctuary li ho conosciuti di riflesso rispetto ai Nevermore, dati evidenti limiti anagrafici del sottoscritto, ma li ho macinati come non ci fosse un domani.
Conclusione: "
The Year the Sun Died" è un buon album dei Nevermore e un insufficiente album dei Sanctuary.
Che la continuità coi Nevermore fosse inevitabile penso lo sapessimo un po' tutti, a parte quei tre-quattro super nostalgici dissennati. Va detto però che dopo lo split del 2011 era anche lecito pretendere di ascoltare anche un po' di vecchio, sano power/thrash made in USA, genere che i
Sanctuary hanno contribuito a celebrare con due perle quali "Refuge Denied" e "Into the Mirror Black".
Equilibrio quindi? Unione ideale tra passato remoto e passato prossimo? Manco per il cazzo.
Volessimo coinvolgere le percentuali, stiamo parlando di un 80% Nevermore e un 20% Sanctuary, dove quel 20% è dato "semplicemente" dalla mancanza di Jeff Loomis e Van Williams. Con quei due a macinare riff assassini e martellate in doppio pedale, questo sarebbe stato al 100% un album dei Nevermore.
Budbill,
Hull e
Rutledge sono bravissimi musicisti, non lo nego, ma la differenza col passato recente si sente fin troppo. Non c'è una sfuriata che sia una, un'accelerazione, nisba.
Manca troppo dei vecchi Sanctuary, a partire dalla voce di
Warrel Dane, il quale aveva promesso che era ancora in grado di sostenere gli acuti di 25 anni fa. Bene, bravo, ma farceli sentire? No perchè io ti voglio bene eh, però sulla fiducia non ti credo.
Il buon Warrel prosegue sul solco lasciato coi Nevermore, con la sua voce inimitabile e profonda, così distintiva da lasciare poco spazio all'immaginazione. E questo, su "The Year the Sun Died", pesa parecchio in termini di confronto.
Come giudicare un album del genere allora? Dipende un po' dal punto di vista che volete abbracciare, se quello dei nostalgici fondamentalisti dei Sanctuary o quello dei fan dei Nevermore. Nel primo caso arriverete davvero a fatica alla fine del disco, semplicemente perchè vi aspettavate dell'altro e quell' "altro" si sente davvero poco, a partire da una produzione che esalta esageratamente i suoni, troppo pulita e moderna. Nel secondo caso, brani quali l'opener "
Arise and Purify", "
Frozen" o la title-track non potranno che deliziarvi, anche se alla lunga la mancanza del lungocrinito shredder di Appleton si farà innegabilmente sentire. La sua verve creativa, in grado di innalzare il livello anche dei brani più mosci, è esattamente quello che rende "
The Year the Sun Died" solo un buon album, piacevole ma che non cresce più di tanto con gli ascolti, risultando quasi ripetitivo e a tratti banale.
Insomma, sono davvero molto combattuto. Come valutare questo disco? La delusione, va detto, c'è da entrambi i lati: deluso che non ci siano DAVVERO i
Sanctuary dietro quel moniker e deluso che un album "dei Nevermore" sia così povero qualitativamente, pur di buon livello. La sufficienza (risicata) è semplicemente figlia di un tentativo di mediazione tra le due delusioni, ma per convincermi appieno, la prossima volta i Sanctuary avranno bisogno di sfornare un disco coi controcoglioni.
E mai come in questo caso la mia firma risulta adatta..
Quoth the Raven, Nevermore..