Lo ammetto, ho sempre provato un’estrema simpatia per
Ace Frehley, il più gigione dei quattro Kiss. Sarà per la sua attitudine fottutamente rock and roll piena di vizi ed eccessi, sarà per le sue cicatrici in faccia, segni della sua gioventù passata in una gang del Bronx, sarà per il suo caratteristico sound tutto Les Paul e Marshall, fatto sta che non ho mai ben digerito come sono andate le cose con gli altri tre, e probabilmente se
Gene e
Paul fossero stati meno despoti e lo stesso
Ace fosse riuscito a tenere un po’ più a bada le sue dipendenze, la carriera dei Kiss e la storia del rock avrebbero preso una piega differente.
Le cose però sono andate come ben sappiamo, quindi inutile piangere sul latte versato. Ritroviamo lo Spaceman, ormai alla soglia dei 70 anni, alle prese con il secondo volume di “Origins”, a quattro anni dal primo volume e a due dal suo ultimo lavoro inedito. Aveva senso pubblicare un altro album di cover? Beh, il fatto stesso che il primo portasse la dicitura ‘Vol. 1’ nel titolo lasciava presagire che prima o poi sarebbe arrivato quanto meno un ‘Vol. 2’, ed infatti eccolo qui. A questo aggiungiamo che, come già detto in sede di recensione di
Spaceman, il buon
Ace non deve dimostrare più nulla a nessuno, quindi ben venga questo nuovo capitolo che ci fa scoprire quali sono le band, e i pezzi in particolare, che hanno influenzato lo stile chitarristico e compositivo del nostro Uomo dello Spazio. Ovviamente, come per tutte le operazioni di questo tipo, la cosa va presa per quello che è, parliamo di un album messo su per puro divertimento, quindi non state qui a fare retorica becera perché non è proprio il caso.
Come per il primo volume, le band scelte sono quelle basilari dei sixties e dei seventies, ovviamente, e di nuovo
Frehley va a pescare, salvo qualche caso, alcuni brani più di nicchia rispetto a quanto potremmo aspettarci a primo acchito. È il caso, per esempio, di
I’m down, che arriva dal primissimo periodo storico dei Beatles (era la B-Side di
Help!, 1965), qui vitaminizzata a dovere, oppure di
Politician, che di certo è un ottimo brano, ma altrettanto certamente non è il primo che vi può venire in mente se vi parlo dei Cream. O ancora,
Manic depression di Hendrix o
Space truckin’ dei Deep Purple, splendide ma meno famose di una
Hey Joe o di una
Smoke on the water. Questo tentativo di non scadere nel banale è assolutamente apprezzabile, così come lo sono gli immancabili ospiti che arricchiscono questa carrellata di cover. Se nel primo volume erano presenti
Slash, il suo vecchio compare
Paul Stanley e
John 5 e la biondissima
Lita Ford, che ritroviamo anche in questo nuovo capitolo, la lista si allunga con la presenza di
Robin Zender e
Bruce Kulick, giusto per non farci mancare niente.
Come per il precedente capitolo,
Ace cerca di rimanere abbastanza fedele alle versioni originali, non mancando, però, di irrobustirle quando serve, come nel caso dei Beatles, o di imprimere comunque il suo marchio, soprattutto a livello di sound di chitarra e di assoli. Quello che dispiace, come sempre, è che anche questa volta abbia deciso di occuparsi delle vocals, perché, come già sottolineato più volte, la sua voce non è certo un portento, e se avesse deciso di coinvolgere più ospiti e di fargli carico delle parti vocali, il risultato finale ne avrebbe senza dubbio giovato.
Poco altro da aggiungere, se non segnalare l’immancabile cover dei Kiss,
She, certamente autoreferenziale, ma lui può permetterselo. Se volete passare 3/4 d’ora in spensieratezza ascoltate pure tranquillamente l’album e prendetelo per quello che è, come già detto in apertura, senza troppe pippe mentali. Non ve ne pentirete.