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Info

Anno di uscita:1976
Durata:34 min.
Etichetta:Polydor

Tracklist

  1. TAROT WOMAN
  2. RUN WITH THE WOLF
  3. STARSTRUCK
  4. DO YOU CLOSE YOUR EYES
  5. STARGAZER
  6. A LIGHT IN THE BLACK

Line up

  • Ronnie James Dio: vocals
  • Ritchie Blackmore: guitar
  • Jimmy Bain: bass
  • Tony Carey: keyboards
  • Cozy Powell: drums

Voto medio utenti

Ci sono alcuni dischi nella storia del metal e del rock in generale che ricoprono un’importanza particolare, perché magari hanno influenzato un genere, o ne hanno definito in maniera definitiva le coordinate stilistiche. Ce ne sono altri che vanno ancora oltre, che risultano assolutamente imprescindibili per tutta l’evoluzione musicale degli anni a venire. Non sono molti, ma di sicuro “Rainbow rising”, il secondo lavoro dei Rainbow di Ritchie Blackmore, rientra tra questi. Vediamo di capire il perché…
Dopo aver abbandonato i Deep Purple nel 1975, Ritchie recluta, ad eccezione del chitarrista, l’intero organico degli Elf, un’ottima band di hard rock che Blackmore aveva conosciuto in tour in America poco prima. Con questa formazione pubblica il primo lavoro, “Ritchie’s Blackmore’s Rainbow”, un gran bel disco di hard rock puro, senza tutte quelle contaminazioni funky che l’ingresso di Hughes e Coverdale aveva portato nei Deep Purple. Sono in molti, infatti, a riconoscere nei primi lavori dei Rainbow il vero stile Purple, che nel frattempo si inoltrano sempre più in territori funky, grazie anche all’ingresso in formazione di Tommy Bolin alla chitarra. Già dal primo album dell’arcobaleno, in ogni caso, si poteva intuire cosa sarebbe successo di lì a poco, con la band che comincia a delineare il proprio stile, fatto di armonizzazioni di classe, riff granitici, testi che trattano determinati argomenti di cui parleremo più avanti.
Ma, soprattutto, la cosa che più salta all’orecchio, è l’incredibile voce di Ronnie James Dio, all’anagrafe Padavona, dotato di un timbro cristallino e potentissimo. C’è ancora qualcosa che non va per il verso giusto, però, e così Blackmore licenzia in tronco tutta la band (è un’abitudine che manterrà per tutta la sua carriera…), ad eccezione appunto di Dio. Reclutati Jimmy Bain al basso, Tony Carey all’Hammond e soprattutto Cozy Powell alla batteria, Ritchie ha finalmente al suo fianco dei musicisti di alto livello con i quali andare a comporre il secondo capitolo della saga, il capolavoro di cui stiamo parlando.
Il lato A di questo lavoro presenta quattro brani di puro hard rock, senza contaminazioni esterne, esattamente quel tipo di brani semplici ed incisivi che i fans dei Deep Purple non possono più ritrovare nella band madre. Un’intro di Tony Carey ci catapulta in “Tarot woman”, pezzo di apertura del disco, prima che la chitarra di Blackmore prenda in mano la situazione. Il ritmo è incalzante, la voce di Dio possente, la batteria di Powell una vera macchina, l’unico degno successore di Ian Paice, pur nel suo stile di molto differente. Inutile stare qui a far notare quanto sia stupendo l’assolo di Ritchie nella parte centrale del brano. Ogni singola nota suonata dal chitarrista in questo lavoro è semplicemente perfetta, sia in fase di riffing che in fase solista. Se si eccettuano i lavori composti con i Deep Purple, infatti, questo è sicuramente l’album più completo e ispirato dell’intera carriera del ‘man in black’. Così come si è aperto, così si chiude il brano, e cioè con i tasti d’avorio di Carey, certo non ai livelli di Jon Lord, ma di sicuro un ottimo strumentista.
È poi la volta di “Run with the wolf”, mid tempo possente introdotto da un riff ‘a stacchi’, specialità di Blackmore. Sono proprio questi fraseggi e stacchi di batteria a fare la differenza rispetto ai pezzi lineari dell’epoca, andando a tracciare uno stile che poi nel metal avrebbe fatto proseliti. Così come i testi a sfondo fantasy di Dio, che negli anni ’80 e ancora di più negli anni ’90 saranno lo stereotipo di un certo tipo di metal, in particolare per quanto concerne il power e l’epic.
“Starstruck”, invece, mette in evidenza l’estrazione classica del chitarrismo di Blackmore, basta ascoltare il riff iniziale per capire cosa intendo, e anche in questo caso saranno decine i ‘cloni’ che prenderanno spunto da questo pezzo. Intendiamoci, non nel senso di copiare di pari passo i riff o le melodie, ma è innegabile l’importanza che ha potuto avere, per esempio, nella crescita artistica di Malmsteen, giusto per fare un nome. Il pezzo, inoltre, mette ancora una volta in evidenza l’incredibile possenza di Dio e la precisione chirurgica del compianto Cozy Powell, tralasciando volutamente il lavoro di Blackmore, ancora una volta delizioso…
Il lato A si chiude con un brano più rockeggiante, “Do you close your eyes”, con l’ennesimo riff da antologia del chitarrista, assoluto maestro nel creare riff che oggi come oggi possono anche sembrare semplici, ma che all’epoca non avevano rivali.
Ma questa non è solo la fine del primo lato del disco, è anche la soglia da varcare per entrare in quella che è la vera e propria parte da antologia di questo lavoro. Già, perché nonostante fin’ora ci siamo trovati di fronte a quattro ottimi brani di hard rock, i due restanti sono quelli che realmente sconvolgono l’ascoltatore. Sì, avete letto bene, proprio due, entrambi di oltre otto minuti.
Una rullata di batteria da manuale introduce “Stargazer”. È quasi impossibile descrivere la magnificenza di questo brano. Ci troviamo davanti ad un pezzo di un’epicità unica, con un Ronnie James Dio ispiratissimo e sopra le righe, uno splendido riff di Blackmore, l’organo a fare da tappeto alla sofferta interpretazione del singer. Cambi di tonalità, aperture melodiche, stacchi di batteria e chitarra all’unisono, progressioni infinite, prima che Ritchie inizi a far piangere il proprio strumento in un assolo da brividi. Quante band di epic metal hanno tratto ispirazione da questo pezzo? Impossibile dirlo… vi basti pensare che anche i nostrani Domine, da sempre attenti osservatori di tutto ciò che è epico, hanno tributato la band con una cover di questa song, peraltro egregiamente riuscita. Vi assicuro che alla fine degli otto minuti non potrete far altro che tornare indietro con la puntina e riascoltare di nuovo tutto d’un fiato.
C’è un solo impedimento che vi vieterà di farlo, la seconda traccia… Se “Stargazer” infatti ha fatto la gioia di tutti gli amanti delle sonorità epic, “A light in the black” dimostra, ancora una volta, quanto fosse avanti Blackmore. Con questo pezzo (e prima ancora con altri brani dei Deep Purple, tipo “Burn”) vengono gettate le basi del power metal, e non sto scherzando. Riff da cardiopalma, ritmo sostenuto, stacchi, stop and go, c’è tutto… Ascoltatelo e vedrete come perfino un maestro come Kai Hansen abbia attinto a piene mani da questi otto stupendi minuti. Come non notare, infatti, le similitudini tra la parte centrale del brano e “Lust for life” dei Gamma Ray, tratta dal primo album del raggio gamma? È Tony Carey ad aprire le danze degli assoli, con un organo effettato, prima che Blackmore arrivi di prepotenza con un’apertura melodica indescrivibile, seguita da un lunghissimo assolo che sotterra tutt’oggi decine e decine di pseudo virtuosi della sei corde. Tecnica gusto e melodia si fondono in un unico blocco, indivisibile, ed è questo che ha sempre fatto la differenza tra Blackmore e i suoi imitatori. Solo ascoltandola si può capire di cosa sto parlando. Ogni amante del power metal che si rispetti dovrebbe conoscere questo brano, e pensare che siamo appena nel 1976…
Ed è proprio qui che risiede l’importanza di questo disco… Il metal stava sì e no movendo i primi passi, grazie ai Judas Priest, che proprio in quest’anno pubblicavano il loro secondo disco, il capolavoro “Sad wings of destiny”, ma Blackmore gettava già le basi per tutto ciò che seguirà negli anni a venire. E ditemi voi se questa è una cosa alla portata di tutti…
Recensione a cura di Roberto Alfieri

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Ultimi commenti dei lettori

Inserito il 02 nov 2017 alle 20:21

Light in the black è tra le mie canzoni preferite di sempre. Pazzesca!!

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