I
Maiden sono una istituzione ed ogni loro uscita discografica un evento, su questo non si discute.
Ciò detto, ho avuto non poche difficoltà a digerire il lungo pasto rappresentato da "
Senjutsu", album che decreta la morte - musicalmente parlando si intende - della band inglese.
Ottantadue minuti (82!) di un polpettone autoreferenziale con Harris che crede di saper scrivere prog propinandoci brani infiniti senza capo ne' coda, un susseguirsi di riff ripetitivi, intrecci chitarristici da "copia ed incolla", bridge lunghi come il ponte di Brooklyn, twin guitars un tempo micidiali, oggi quasi innocue.
Lo stesso Harris ha dichiarato, presentando il disco, che il processo di songwriting è stato molto duro e che molte parti hanno richiesto sforzi da parte di tutti e non faccio fatica a credergli dopo averlo ascoltato.
D'altronde che Harris fosse un pò paranoico lo si era già capito dal fatto che la band non ha ascoltato il nuovo album
Senjutsu per due anni per paura che qualcuno potesse copiarlo e distribuirlo in rete, ma la speranza era che questa sua paranoia almeno non venisse trasportata su disco.
Ed invece sono proprio le composizioni del bassista ad avermi maggiormente deluso con la loro spropositata lunghezza che sconfina talvolta nella sconclusionaggine.
Mi sono chiesto ascoltando i brani del nuovo lavoro se questo era lo stesso gruppo che aveva inciso "
Wratchild", "The Number Of The Beast", "Aces High" o l'inarrivabile capolavoro "
The Rime Of The Ancient Mariner" ( che dimostra che la lunghezza non è un problema se il songwriting è ispirato!).
Qui invece non c'è più l'immediatezza, la sferzata metal, il chorus da cantare a squarciagola durante i concerti (qualcuno ha detto "
Run To The Hills"?).
I brani sono cupi, introspettivi ("
The Time Machine", "Lost in a Lost World"), le chitarre non volano se non in alcuni pezzi quali "
Stratego" (peraltro il più maideniano dei brani presenti) e la stessa titletrack posta all'inizio la dice lunga sulle coordinate stilistiche del disco, un pezzo cadenzato, mediamente lungo, cupo e vagamente orientaleggiante.
E non basta un gioiellino come "
Darkest Hour" a risollevare le sorti del disco, paradossalmente uno degli episodi migliori se non altro per la sua originalità è il primo singolo estratto "
The Writing On The Wall" che unisce un brio rock-country con un chorus vincente anche se ripetuto troppe volte soprattutto nel finale, mentre altre composizioni soffrono della loro eccessiva lungaggine, brani ridondanti di strofe, ritornelli, ripetizioni delle strofe, incisi strumentali o solos, ripetizione del ritornelli, intrecci chitarristici elementari (beh, i Maiden non sono mai stati dei mostri di virtuosismo) e alla lunga un pò noiosi.
Insomma, se i Maiden volevano rievocare i fasti del passato, hanno fallito, se invece il loro intento era stupire e disorientare lo zoccolo duro dei loro fans, ci sono riusciti.